In Italia urge una riflessione sulla riqualificazione immobiliare
Nel nostro Paese, il gran numero di immobili dismessi richiede un serio approfondimento perché la mancanza di diversificazione nelle destinazioni di riuso rischia di tradursi in una proliferazione di spazi di cui il Paese non ha un reale bisogno

Qualcuno ricorderà i temi della riqualificazione degli immobili in disuso presenti sul nostro territorio nazionale. Ricorderà dunque l’imperativo di ridurre il consumo di suolo, valorizzare il paesaggio costruito, incentivare la riqualificazione degli spazi modificandone la destinazione d’uso e indirizzandoli verso la produzione di servizi culturali. Qualcuno, ancora, ricorderà il diffondersi di fab-lab, makers-lab, spazi di co-working, spazi “multifunzionali”, per formazione aziendale, presentazioni, eventi. Qualcuno ricorderà gli allestimenti modulari, le esposizioni temporanee, la creazione di comunità creative.
Ebbene. Forse abbiamo esagerato.
Il tema della riqualificazione immobiliare si è tradotto nella proliferazione di spazi simili tra loro
Quell’entusiasmo ha condotto alla proliferazione di una serie di servizi molto simili tra loro, soprattutto nell’ambito di imprenditoria e start-up – con la creazione di “incubatori”, “hub”, e via discorrendo – che, per quanto importanti per lo sviluppo di alcuni settori della nostra economia, hanno finito con il costituire un eccesso d’offerta, rispetto alle reali esigenze del nostro Paese. Il risultato è che spesso quegli spazi, immaginati per ridare lustro a luoghi in disuso, sono tornati a essere poco frequentati. Il sub-uso funzionale si è trasformato in un sub-uso di persone. In altri termini: vuoti come allora, solo più fighi.
Sviluppare dei progetti di riuso sulla base delle reali esigenze del Paese
Il punto è che, probabilmente, al di là delle nostre aspettative e di ciò che consideriamo come socialmente desiderabile, è forse necessario sviluppare una linea di intervento che sia più vicina alle necessità concrete dei territori, anche quando queste necessità non riflettono idilliaci scenari da Silicon Valley.
Il caso dell’Opificio nel quartiere Marconi a Roma
Prendiamo come esempio il lavoro che Italia Camp ha realizzato in zona Marconi a Roma, negli ex-edifici della Mira Lanza, trasformandoli nell’attuale Opificio che è un centro di cultura e formazione.
Tra tutte le azioni condotte, quella di Italia Camp è uno degli interventi più riusciti, sia sotto il profilo architettonico che sotto il profilo di coerenza storica, tra il “core” organizzativo e le attività condotte.
Un progetto credibile sia per quanto riguarda la governance, sia per quanto riguarda i risultati delle attività che conduce. Per intenderci, le quote societarie di Italia Camp sono detenute dall’associazione e da soggetti come Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, Invitalia, RCS e Unipol.
Non parliamo dunque della solita aggregazione tra piccoli soggetti che affittano a prezzi calmierati un immobile pubblico riqualificato con fondi europei. Parliamo di gruppi industriali, di soggetti che sono nella posizione, e nella condizione di maturare un’importante visione del futuro, e di contribuire a realizzarla.
Le idee, però, anche qui, ripetono più o meno le stesse direttrici: spazio eventi, spazi di co-working, aule formazione. Certo, rispetto al piccolo centro maker-lab di un territorio di provincia, qui c’è una credibilità importante e sicuramente un team che riuscirà a imprimere alle azioni previste una maggiore forza.

Riqualificazione immobiliare in Italia? Sì, ma con uno sguardo più attento alle realtà locali
Il punto, però, è comprendere di quanti spazi di questo tipo l’Italia abbia ancora bisogno. A fronte di miriadi di spazi uguali si assiste a una carenza di servizi meno interessanti ma forse più vicini ai cittadini. Non è possibile che il futuro del nostro Paese si plasmi da un lato con l’autoimprenditorialità nei settori culturali e creativi e nelle start-up tecnologiche e, dall’altro, nell’enorme mole di corsi professionali per estetisti, OSS e tatuatori. Forse dobbiamo immaginare nuovi futuri per il nostro Paese. Qualcosa che parli più alle “piccole e medie imprese” e meno alle “start-up”, qualcosa che migliori l’interdipendenza tra pubblico e privato, anche superando il normale perimetro delle attività cui siamo abituati a pensare alle cooperazioni PPP, e che veda soggetti privati erogare, per conto del settore pubblico, servizi di assistenza ai cittadini.
Dobbiamo iniziare a ragionare come un sistema economico evoluto, che riconosce anche nell’intangibile la presenza di un’idea industriale. Senza rincorrere i grandi temi per cui, come Paese, non abbiamo reale competitività; e iniziando a riflettere sui nostri fattori distintivi, cercando di creare quelle condizioni che migliorino le risorse che già abbiamo.
Non possiamo sperare che ripetendo gli stessi gesti gli effetti siano differenti. Centriamoci sui risultati che vorremmo ottenere, per poi studiare le azioni necessarie per raggiungerli.
Stefano Monti
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