L’architettura secondo Benedetto Croce, Giambattista Vico e Hans Hollein

Dal filosofo Benedetto Croce all’architetto Hans Hollein: in questo settimo appuntamento del suo ciclo di conversazioni Luigi Prestinenza Puglisi ci racconta cos’è l’architettura secondo alcuni grandi nomi del passato

Nelle conversazioni precedenti abbiamo cercato di vedere il linguaggio architettonico nella sua autonomia, cioè in ciò che lo differenzia rispetto ad altri linguaggi. In questa conversazione affronteremo tre posizioni, di un filosofo, di un architetto e di un epistemologo, i quali mettono in discussione il punto di vista dell’autonomia disciplinare, per suggerirci che non esiste l’architettura in sé e per sé e che tutto, anzi, può essere architettura.

L’architettura secondo Benedetto Croce

A confermarci che il linguaggio dell’architettura non debba essere costretto da regole di sorta è uno dei più acuti pensatori del primo novecento, Benedetto Croce. Per il filosofo di Pescasseroli è sciocco dividere l’arte in generi, separando per esempio la pittura di storia da quella di paesaggio o l’architettura utilitaria dalla monumentale, e pensare che ci siano differenze di fondo tra le stesse arti maggiori cioè tra la letteratura, la pittura, il teatro, la scultura, l’architettura, il cinema.  Le differenze empiriche, che comunque ci sono e sono evidenti, non sono, infatti, essenziali. Possono essere utili a fini classificatori, ma non hanno significato se ci poniamo dal punto di vista dell’arte perché il linguaggio, attraverso il quale parliamo poeticamente del mondo, ė sostanzialmente uno. Tutte le discipline, comprese quelle considerate non artistiche, condividono, infatti, di essere il prodotto della intuizione e della fantasia, cioè della capacità esclusivamente umana di raccontare attraverso il linguaggio delle immagini.  L’ estetica deve essere vista, quindi, come scienza dell’espressione e linguistica generale, come suggerisce il titolo del corposo saggio che pubblica nel 1902 e poi rielabora a più riprese.
Giambattista Vico e il linguaggio poetico
Per sostenere la tesi, Benedetto Croce si appoggia alle teorie di Giambattista Vico, un geniale ma sino ad allora poco considerato filosofo vissuto a cavallo tra Seicento e Settecento, secondo il quale gli uomini, prima di usarlo scientificamente, adoperano il linguaggio poeticamente, ragionano cioè attraverso le immagini. Il linguaggio che tutti noi parliamo è, infatti, fondato su questa capacità primigenia di esprimerci, di farci essere in un qualche modo tutti poeti. È secondario – lo ripetiamo, perché si tratta di un passaggio fondamentale – se ricorriamo a una pittura, a una architettura o a un poema, importante è invece l’intuizione poetica ben formulata dal punto di vista del linguaggio. Una intuizione non chiara, infatti, non è una intuizione ma un guazzabuglio, e un pensiero non è tale sino a che non è ben articolato. Il bello è il pienamente formulato e il brutto è il non raggiungere questa compiutezza. Pertanto, un contenuto senza forma non esiste perché é la forma stessa che è il contenuto.

L’eredità di Benedetto Croce

Notiamo per inciso che Croce in questo modo liquida la posizione di chi crede che un buon edificio sia la somma di funzionalità e bellezza, intese come aspetti separati. Perché una buona opera non può che esprimere chiaramente la propria essenza. Nonostante le preferenze artistiche di Croce fossero piuttosto convenzionali, molto sospettose se non decisamente ostili per le sperimentazioni che in quegli anni occupavano la scena artistica, quali il Futurismo, l’estetica di Croce rappresenta uno dei punti più avanzati della riflessione novecentesca sull’arte. A Croce si sono ispirati in modo diverso importanti teorici e critici, da Luigi Pareyson a Bruno Zevi, da Lionello Venturi a Matteo Marangoni e a Carlo Ludovico Ragghianti. E coloro che non si sono ispirati, come per esempio Umberto Eco, lo hanno dovuto affrontare come il principale interlocutore ideale, tanto che qualcuno ha parodiato il suo famoso detto “perché non possiamo non dirci cristiani” in “perché non possiamo non dirci crociani”.  Vi sono, poi, le ricadute internazionali generate da un pensiero anticipatore e attuale, testimoniate da traduzioni in una quindicina di lingue.
Sorprendentemente, un autore che non afferra a pieno la modernità, mette a punto una teoria che spezza gli steccati disciplinari per sostenere che tutta l’arte è linguaggio e tutto può essere arte. Che ciascuno di noi è artista e critico e, proprio per questo, può essere la caricatura di queste due figure nel momento in cui non faccia buon uso del proprio potenziale talento, quando presta il proprio linguaggio al mondo.

La posizione dell’architetto Hans Hollein

Il secondo personaggio è l’architetto Hans Hollein, il quale nel 1967 scrive un testo: Tutto è Architettura. La tesi che l’austriaco sostiene  è che la moderna tecnologia ha esteso il campo d’azione dell’architettura dagli edifici all’intero ambiente. Basti pensare per esempio a una cabina telefonica che ci permette di entrare in un network di comunicazione tra luoghi diversi (ancora non c’è il wi-fi che amplierà la rete a scala planetaria e permetterà di spostare il nostro ufficio in un prato). Oppure ad attrezzature in rapporto ancora più stretto con il corpo, quali i caschi dei piloti degli aerei a reazione che, con i loro collegamenti telematici, espandono gli organi sensoriali, mettendoli in stretta relazione con ambiti più vasti. E, infine, pensare alla navicella spaziale e alla tuta da astronauta. “Qui viene creato un alloggio, ben più perfetto di qualsiasi edificio, che offre un totale controllo del calore corporeo, dell’alimentazione, del riciclo delle feci e un benessere generale a dispetto delle condizioni più estreme, tutto ciò unito a un massimo grado di mobilità”.

Secondo Hollein, l’architettura è linguaggio

La tesi di Hollein è condivisa da Buckminster Fuller che, negli stessi anni, pensa di coprire con una gigantesca cupola geodetica la città di New York per rendere inutile la protezione ambientale offerta dagli edifici e così poter pensare a un habitat più libero, alternativo a quello tradizionale. E dai gruppi di architetti radicali che, un po’ in tutto il mondo, si formano in quegli anni, dagli Archigram a Superstudio, da Ant Farm a Coop Himmelb(l)au. Molti progetti dei quali rimangono sulla carta perché spesso sono solo ipotesi teoriche, prefigurazioni fantastiche volutamente irrealizzabili. Tuttavia, il concetto che tutto è architettura entra in circolo e, dagli anni Sessanta in poi, non sarà più messo in discussione se non dai sostenitori dell’Autonomia, dei quali abbiamo accennato.  Se non è più necessariamente un edificio, una struttura fisica fatta di mura e solai, cosa è l’architettura? Come possiamo definirla? La risposta di Hollein è:
Architettura è culto, è marchio, simbolo, segno, espressione.
Architettura è controllo del calore corporeo, abitazione protettiva.
Architettura è definizione, determinazione dello spazio, ambiente.
Architettura è condizionamento di uno stato psicologico.
Ma, soprattutto:
L’architettura è un mezzo di comunicazione.
Quindi, in ultima istanza, un linguaggio. È interessante, a questo punto, notare le affinità tra la posizione estetica crociana, in cui tutta l’arte è linguaggio, e la posizione radicale di Hollein, secondo la quale tutta l’architettura è comunicazione. Ovviamente, senza dimenticarci che Croce, probabilmente, sarebbe rimasto inorridito davanti ai progetti di Hollein e che, con simile probabilità, Hollein non abbia mai letto una pagina di Croce o, se lo ha fatto, non ha certamente ritenuto il filosofo tra i propri ispiratori.

37 L’architettura secondo Benedetto Croce, Giambattista Vico e Hans Hollein
Hans Hollein, Facciata per la Strada Novissima, 1. Biennale Architettura, Venezia 1980

Feyerabend e l’ambiguità della scienza

Dire che tutto è architettura e che tutto possa essere arte può creare smarrimento. Occorre trovare qualche criterio che ci orienti. Prima di fare questo, è opportuno, a mio avviso, introdurre un terzo picconatore, Paul Feyerabend, con il suo Anything goes: tutto va ed è una pia illusione pensare che esista una qualche certezza che ci possa guidare. Paul Feyerabend, forse il più brillante discepolo del filosofo della scienza Karl Popper, pubblica nel 1975, Contro il metodo, per dimostrare che tutte le storie delle scienze sono intimamente bugiarde quando sostengono che le scoperte scientifiche avvengono perché si sono applicati esclusivamente metodi scientifici e che la scienza sia un progressivo cammino verso la verità, sia pure attraverso falsificazioni, come ritiene Karl Popper. Una corretta analisi storica ci mostra, invece, che la conoscenza procede seguendo strade diverse e non sempre razionali e, soprattutto, lavorando sulla sostanziale ambiguità di ogni suo discorso. Ambiguità che lascia intravedere lati inaspettati e linee di sviluppo alternative, e che, così facendo, mettono in gioco orizzonti diversi.

Teoria e critica della conoscenza secondo Feyerabend

La scienza diventa simile all’arte, con la quale condivide imprecisione, complessità e ricchezza metaforica, e la storia ridiventa magistra vitae per entrambe. Perché solo attraverso la storia, anzi le storie, possiamo intravedere la complessità e le contraddizioni dei percorsi conoscitivi e l’ambiguità congenita del nostro linguaggio, cioè dell’unico strumento che abbiamo per concettualizzare il mondo. Attraverso le cui ricostruzioni possiamo capire perché una parola o una immagine, che in un’epoca ha un significato, in un’altra ne assume un altro e, più in generale, perché una sfumatura di senso può avere un valore inaspettato, molto maggiore di quello che, a priori, saremmo propensi ad attribuirgli. In questa visione, come suggerisce Feyerabend con una frase travisata da conservatori e benpensanti, anything goes, tutto è possibile, ogni mossa concettuale può essere vincente o perdente. Perché dire che tutto è possibile non vuol dire che tutto lo sia necessariamente. È solo l’esperienza, la conoscenza che, a posteriori e non a priori, ci può dire se lavorare su una ambiguità di senso ha reso accessibile nuovi territori di conoscenza o, semplicemente, si è consumata in sé stessa. Da qui una conseguenza: non è possibile costruire una teoria della conoscenza, una teoria della storia, ma solo una critica di questa. E, insieme, non è possibile e pensabile costruire un metodo, ma solo ragionamenti che vadano contro il metodo e allarghino il nostro orizzonte critico.

L’architettura, tra critica e storia

Dal punto di vista pratico, dire di essere contro il metodo, non vuol dire non usare alcun criterio, né pensare che un approccio dilettantesco possa essere migliore di uno costruito sul campo e sull’esperienza. Anche se, in linea del tutto teorica, è possibile e qualche volta può avvenire, come quando solo un occhio ingenuo riesce a vedere che il re è nudo. In genere, però, ammettere che anything goes non vuol significare che tutto vada necessariamente bene, esattamente come la possibilità di scrivere una poesia senza versi e senza regole di sorta non consente a chiunque di essere un poeta. L’aumento di libertà rende, anzi, le cose più difficili e mai più facili, con confini più labili tra il solido terreno della conoscenza e il baratro dell’ipotesi arbitraria, tra le cose che dimostrano avere senso e quelle che si rivelano esserne prive. L’assenza di regole rende solo possibile utilizzare, se ci si sa muovere con accortezza, una strumentazione più vasta e priva di pregiudizi.
Un tema particolarmente affrontato da Feyerabend è quello dell’abbondanza della realtà e della ricchezza delle parole che si manifesta soprattutto attraverso la loro ambiguità. L’evoluzione del pensiero, secondo il filosofo austriaco, è possibile proprio grazie a questa mancanza di perfezione. Una teoria perfetta, infatti, non può evolvere. È bloccata per sempre nella sua assolutezza. Una teoria imperfetta può , invece,  produrne altre migliori e più interessanti secondo una logica evolutiva non prevedibile a priori. Se questo è vero per tutta la conoscenza, compreso la più strutturata scientificamente, vale anche per l’architettura. Da qui la centralità della storia dell’architettura rispetto alla teoria dell’architettura. Che perdendo il suo carattere di compiutezza teorica diventa critica dell’architettura (in questo senso: non esiste teoria dell’architettura ma solo critica). Siamo tornati a Kant, il grande filosofo di cui non loderemo mai abbastanza la grandezza. Nella contemporaneità è la critica che prende il posto della filosofia. E la critica è lo strumento che l’uomo ha a disposizione per orientarsi nel mondo, compreso quello dell’architettura. Critica, che come abbiamo visto, non può essere che storica: da qui la sostanziale coincidenza dei due termini. Infatti: non può esserci storia dell’architettura che non sia critica e non può esserci critica dell’architettura che non sia storica.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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