Intervista ad (a + b), gli architetti spaziali
La loro collaborazione compie 10 anni e gli architetti-designer Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro, fondatori dello Studio (a+b), non smettono di progettare. Addirittura usando lo Spazio come terreno di indagine.
(a+b) non è soltanto una formula matematica, è anche il nome dello studio fondato dieci anni fa dagli architetti Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro. Specialisti del design per lo Spazio, con la maiuscola, e per gli ambienti estremi, con all’attivo collaborazioni con le principali Agenzie Spaziali internazionali, stanno sviluppando progetti che applicano le loro conoscenze al ripensamento degli spazi in tempo di pandemia e al miglioramento della vita delle persone ipersensibili. Sono anche molto affiatati, al punto da rispondere alle domande di Irene Sanesi, che li ha intervistati per Artribune in occasione del loro decimo anniversario professionale, mettendo sistematicamente in avanti il lavoro dell’altro.
(a+b), la sigla che raccoglie le vostre iniziali, sembra quasi un manifesto di fondamentali.
B_: Abbiamo scelto le nostre iniziali minuscole racchiuse da due parentesi perché in matematica è l’indicazione di una somma indivisibile tra due fattori, quindi una chiara dichiarazione di intenti. Per i primi dieci anni, ci siamo attenuti alle indicazioni programmatiche: grande unità e assoluta sintonia.
A_: Quando ci siamo conosciuti venivamo da percorsi molto diversi, ma entrambi avevamo collezionato esperienze trasversali che si sono rivelate complementari: se io ho un approccio più concettuale e scenaristico, Benedetto sa pensare a un nuovo progetto fin nei minimi dettagli tecnici, anche se si tratta di un’idea preliminare, ha un’apertura totale nei confronti di innovazione e tecnologia e una forte curiosità che lo spinge a cercare nuove strade, e questo è un grandissimo vantaggio in un mondo che cambia così rapidamente e che ci obbliga ad assorbire il nuovo.
STORIA E PROGETTI DI (A+B)
Qual è il vostro background?
B_: La formazione di Annalisa è artistica e le è sempre piaciuto scrivere, dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Milano ha lavorato all’estero come architetto, poi è tornata a Milano e ha iniziato a fare la giornalista, ha fondato Techne WWM, una rivista crossover tra arte, design e tecnologia, e poi è stata chiamata da Tomás Maldonado a insegnare in università. Non aveva pensato alla carriera accademica, che ha iniziato con un PhD sul Design per lo Spazio al Dipartimento di Design del Politecnico di Milano, e nemmeno avrebbe immaginato che nel giro di pochi anni avrebbe fondato una nuova disciplina grazie ai risultati dei suoi progetti di ricerca sviluppati con aziende e agenzie spaziali. Il suo primo libro, Industrial Design for Space, è uscito nel 2001, l’ultimo quest’anno, nel 2021, Design of Supporting Systems for Life in Outer Space, pubblicato da Springer Nature.
A_: Benedetto ha fatto studi classici, viene da una famiglia di commercianti d’arte, si è laureato in Architettura all’Università di Genova specializzandosi in progettazione navale e ha iniziato la sua carriera disegnando prodotti industriali. Ha curato la collezione limitata di oggetti ABV, progettando a stretto contatto con artisti come Getulio Alviani, Agenore Fabbri, Arnaldo Pomodoro, Luigi Veronesi e designer come Gae Aulenti e Gio Ponti. Con alcuni di loro, come Getulio Alviani, ha progettato allestimenti di mostre e installazioni. Ma ha anche costruito stabilimenti farmaceutici per Foster & Wheeler in Cina e insegnato Design del prodotto all’Università di Genova e Design della comunicazione al Politecnico di Milano, chiamato da Mario Antonio Arnaboldi.
A+B_:Siamo decisamente complementari e a tutti e due piace molto fare ricerca e insegnare: insieme abbiamo creato il primo e unico corso al mondo per designer spaziali riconosciuto e supportato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA), Space4InspirAction, alla Scuola del Design del Politecnico di Milano.
Se doveste indicare i progetti che più vi rappresentano?
B_: Tra le cose che ci siamo detti all’inizio c’era “cerchiamo di disegnare in più ambiti”, per allargare l’orizzonte progettuale e non finire a essere visti come “quelli che fanno…” Mi sembra che anche qui si sia tenuto fede agli intenti, perché dalle ceramiche in serie limitata con Tullio Mazzotti al modulo per una nuova stazione spaziale orbitante per Thales Alenia Space siamo passati attraverso prodotti, aziende e tecnologie estremamente vari.
A_: Siamo molto affezionati a Mate, il primo oggetto che abbiamo disegnato insieme per Living Divani, e che ci ha permesso di confrontarci sulla nostra creatività, scoprendo la volontà comune di andare oltre schemi precostituiti e tipologie di oggetti consolidate. Mate è un prodotto che nasce da una forte attrazione che abbiamo scoperto di avere entrambi: osservare gli usi impropri degli oggetti per creare progetti ibridi, difficili da descrivere a parole, perché la funzione non è così ben definita, può variare, è personale, ed è l’oggetto stesso che comunica attraverso la sua forma come essere usato. Poi ci sono senz’altro i treni Leonardo disegnati per ATM Milano e prodotti da Itachi Rail Italy nel 2015 in occasione di Expo e gli oggetti spaziali acustici Pinna per Caimi Brevetti, due progetti che sono stati selezionati da ADI Design Index e che hanno aspetti innovativi molto diversi.
Oggi che la mobilità si è quasi fermata, sentire parlare di treni fa sognare…
B_: Il progetto Leonardo ha riguardato la definizione di esterni, livree, testata e interni dei nuovi treni per la metropolitana di Milano con l’intento di rafforzare l’identità del brand di ATM utilizzando il logo come generatore estetico di una forma e rendere i treni più riconoscibili. I treni sono completamente neri perché volevamo farli “scomparire” nell’ambiente scuro delle banchine, allo scopo di far risaltare per contrasto i segni grafici in corrispondenza delle aperture delle porte, e favorire la visibilità degli ingressi nel caso, molto comune, di affollamento. E poi abbiamo scelto dei segni forti, di colore rosso per la linea 1 e verde per linea 2, e abbiamo presentato tre alternative immaginando che il nostro committente ne scegliesse una. Invece sono piaciute tutte moltissimo e ATM ha deciso di realizzarle tutte e tre, su treni diversi, per entrambe le linee.
A_: Lavorare insieme a Itachi Rail Italy all’inizio non è stato facile. Gli ingegneri coinvolti facevano fatica a immaginare soluzioni diverse e soprattutto distanti da quello che già era il loro know-how consolidato, ma attraverso la sperimentazione sui prototipi siamo riusciti a convincerli che le innovazioni da noi proposte miglioravano il comfort dei treni e li riqualificavano esteticamente, rendendoli anche più riconoscibili. Questo processo ha riguardato progetti complessi, come le panche ondulate che sembrano sospese nell’aria, ma che mantengono rigorosamente le inclinazioni ergonomiche richieste dai protocolli di certificazione.
(A+B) E LO SPAZIO
Restando sempre in movimento, ma passando dal treno all’astronave: che mi dite di Pinna?
A_: Gli oggetti acustici spaziali Pinna nascono dall’intuizione di creare un dialogo tra know-how tecnologici e produttivi diversi e distanti tra loro, per generare innovazione. Cosa succede se chiediamo a un’azienda specializzata in plissettature per il settore moda di alta gamma di provare a sperimentare diverse pieghe sui tessuti Snowsound? Otteniamo maggiori performance acustiche e inedite ispirazioni per nuovi prodotti, suggerite dalle pieghe del tessuto e dai volumi che creano.
B_: Pinna è una struttura tridimensionale fonoassorbente che si dispiega a ventaglio dando origine a una forma sorprendente e che ricorda la pinna di un grosso pesce, e per noi è un progetto simbolo del nostro modo di progettare che unisce ricerca tecnologica, ispirazione spaziale ed estetica. Un progetto è sempre il risultato di compromessi tra i designer e il committente, tra quello che si vorrebbe fare e quello che in realtà è possibile realizzare per vincoli contrattuali, tempi ecc.
Dieci anni sono un anniversario importante e anche il tempo per capire se un’intesa funziona: come fanno due architetti-designer a capirlo?
B_: Forse per il fatto che saltiamo da un mondo all’altro e che tutto questo avviene in maniera fluida, credo che non abbiamo mai avuto il tempo di preoccuparci se andassimo d’accordo o no.
A_: Ci divertiamo a progettare insieme e abbiamo sempre voglia di fare di più, di confrontarci su nuove idee, di metterci alla prova in aree che non abbiamo ancora esplorato. Tutto avviene in leggerezza, senza fatica, grazie a un’alchimia che ci sorprende ancora. È naturale, e anche un po’ magico.
Da quando vi ho conosciuti per me siete diventati “gli architetti spaziali”, un appellativo che restituisce appieno il senso di eccellenza del vostro lavoro ma anche riconduce a quanto più vi sta a cuore: lo Spazio, e a come gli oggetti abitano lo spazio, non solo nello spazio.
A_: Lo Spazio ci invita a cambiare punto di vista (nel vero senso del termine) e per un progettista rappresenta una sfida fantastica: progettare per lo Spazio aiuta a liberarsi da un pensiero strutturato e convenzionale e sperimentare la purezza della creatività. Il design ha un ruolo strategico importante nella progettazione spaziale, un ruolo “visionario” capace di generare innovazione, e immaginare nuovi scenari possibili in cui valori come il benessere e la sostenibilità siano prioritari. E questo vale sia per oggetti che abitano lo Spazio, come dici, e che abitano la Terra. Il designer si occupa dell’essere umano, ne interpreta i bisogni, si spinge oltre cercando a volte di anticiparli: se un astronauta vive e lavora in un ambiente confortevole, e con equipaggiamenti più efficienti, le sue performance aumentano, e possono influire notevolmente sul successo di una missione. Il design è interdisciplinare per natura, e parla linguaggi diversi, mi piace dire che unisce scienza, tecnologia e bellezza, e può fare da “ponte” fra Spazio e Terra.
B_: Lo Spazio è un mondo che ci affascina per lo stretto legame con l’idea di futuro e per la necessità di creatività che i nuovi scenari si portano appresso. Si è passati in breve tempo da progetti monopolizzati da poche agenzie nazionali alla space economy con una miriade di new company e start up che ricercano per i loro turisti spaziali più comfort e benessere, che vogliono offrire loro sogni ed esperienze spaziali indimenticabili. Ingegneri bravissimi e superspecializzati se ne trovano in giro, ma i designer che mischino le carte sul tavolo e inventino nuovi paradigmi sono pochi.
DALLO SPAZIO ALLA PANDEMIA
I vostri astronauti non hanno bisogno di tempo libero?
A_: Altroché. Recentemente Thales Alenia Space ci ha chiesto di progettare una stazione spaziale che prevedesse, per la prima volta, degli spazi dedicati all’entertainment degli astronauti. Abbiamo lavorato molto sugli aspetti percettivi e sensoriali in cui la qualità e il colore della luce, insieme alla configurazione spaziale degli arredi, cambiano in funzione delle varie attività svolte dagli astronauti. Guardandolo dall’esterno, il nostro concept si ispira a un anello (ha finestre incastonate come pietre preziose) che viaggia nello spazio per valorizzare la bellezza Made in Italy con un segno forte e riconoscibile.
B_: Ci diverte metterci alla prova e progettare nuovi oggetti e tool per un ambiente come lo Spazio, in cui la mancanza di gravità è considerata un limite ma che, se osservata con la lente del design, può trasformarsi in una sorprendente opportunità. Progettare per lo Spazio richiede una grande capacità di visione e di previsione d’uso per immaginare come i nuovi ambienti e oggetti verranno vissuti dagli astronauti, come saranno usati gli oggetti, e come si modificheranno i gesti e i comportamenti in assenza di gravità, che non fa parte della nostra esperienza comune.
La sofferenza del nostro tempo e l’esigenza di un nuovo modello di cura quanto vi toccano nella vostra capacità creativa?
A_: La sofferenza di cui parli è generata da un malessere diffuso in cui le persone più sensibili ne risentono maggiormente fino a degenerare in patologie diverse. Noi interveniamo attraverso la bellezza, attraverso il potere dell’arte, del “bello e ben fatto”, tipico del design Made in Italy, lo facciamo grazie alla capacità dell’architettura di valorizzare gli spazi abitabili considerando tutti gli aspetti sensoriali, dalla luce al colore, dai materiali all’acustica o alla qualità dell’aria: Quindi l’esigenza di un “nuovo modello di cura” è un tema che ci tocca profondamente e sul quale stiamo facendo una serie di riflessioni e ricerche che ci porteranno presto a sviluppare nuovi progetti, mantenendo sempre una visione ottimistica.
B_: Noi per fortuna abbiamo una sorta di “bolla” che ci protegge: quando siamo immersi in un progetto riusciamo a isolarci ed entriamo in una dimensione quasi di sogno che ci permette di guardare la parte di luce di ogni cosa. Ai nostri studenti dico sempre che “fare il designer è meglio che lavorare”. Quindi per essere grati di tanta fortuna, come minimo dobbiamo mantenere un atteggiamento positivo nei confronti di quello che ci circonda. Come si fa a progettare un mondo di nuovi spazi e oggetti intorno a noi che possano aumentare il benessere delle persone, se non si è ottimisti?
IL FUTURO DI (A+B)
State lavorando a qualche progetto che possa migliorare le vite degli altri come avete fatto per gli astronauti in spazi confinati?
A_: Sì, stiamo pensando a luoghi di benessere dedicati alle persone ipersensibili nei quali l’architettura, l’arte e il design siano componenti attive nel percorso di cura e a come gli oggetti e gli ambienti possano influire sul loro sentire al fine di migliorarne le condizioni di vita, soprattutto percettive e relazionali. E anche in questo ci viene in aiuto l’esperienza che abbiamo accumulato in vent’anni di progettazione con gli astronauti. Lo spazio amplifica ed “estremizza” tutte le dinamiche, comprese quelle relazionali e ambientali, ed è quindi un ottimo “training” per noi progettare per gli astronauti e poter trasferire modelli virtuosi applicati nello spazio per incrementare il benessere dell’equipaggio a nuovi contesti sulla Terra.
B_: Il designer ha una grossa responsabilità sociale: gli oggetti che pensa vanno a comporre il mondo che viviamo. In questo senso ogni prodotto progettato, da un sedile a un device elettronico, può potenzialmente migliorare (o purtroppo peggiorare) la vita di qualcuno. Poi ci sono quegli oggetti che introducono concetti nuovi e li portano avanti. Ti faccio l’esempio del lavoro che stiamo facendo con Caimi Brevetti sul comfort acustico da diverso tempo: era un concetto pressoché sconosciuto fino a qualche anno fa, ma ora se ne avverte l’assoluta necessità.
Se doveste raccontare il futuro che immaginate, quali parole usereste?
A_: Se per “futuro che immaginate” intendi il futuro che vorremmo, le parole sarebbero sicuramente: bellezza, conoscenza, consapevolezza, grazia, intelligenza, leggerezza, sostenibilità.
B_: Aggiungo curiosità: il razzo vettore di ogni possibile progresso.
‒ Irene Sanesi
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