Genova, la decadenza di una città che era avanguardia

Cosa sta avvenendo in ambito architettonico nel capoluogo ligure? Nell’anno segnato dall’inaugurazione del Viadotto Genova San Giorgio, l’architetto, critico di architettura, fotografo e filmmaker Emanuele Piccardo condivide il suo punto di vista sulla città presente e futura.

C’è stata una stagione dal 1962 al 1992 (l’anno delle Colombiane) in cui Genova è stata avanguardia: dal cinema alla letteratura, dall’architettura all’arte. Nel nuovo millennio il declino è sempre più evidente nelle forme e nei modi più disparati.
Un declino che è culturale ma che negli ultimi anni è stato anche politico. Il cambio di orientamento, dal ventennale dominio della sinistra alla deriva leghista attuale, ha determinato radicali cambiamenti nella gestione e nel progetto della Genova presente e futura. Una città che ha perso il suo ruolo di porto guida del Mediterraneo, in termini culturali e di traffici, sempre più isolata in quello che fu il triangolo industriale con Milano e Torino. Dal 2017, anno in cui si è insediato il sindaco supereroe Bucci, abbiamo assistito a un lento quanto incontrollato processo di rimozione della memoria storica della città: dall’abbandono della Casa del Soldato di Luigi Carlo Daneri, colta citazione della Ville Savoye di Le Corbusier, alla chiusura del museo dedicato allo scenografo Lele Luzzati, fino alla distruzione in atto degli allestimenti museali progettati da Franco Albini a Palazzo Rosso. Memoria che riguarda anche la triste sorte del primo e unico museo di arte contemporanea, Villa Croce, trasformato nella peggior quadreria in stile “negozio di antiquariato” dalla attuale gestione curatoriale, dimenticando la storia che ha portato alla fondazione, nel 1985, del secondo museo italiano pubblico, dopo il Museo d’arte contemporanea di Rivoli.

IL CASO ALBINI

Genova nel dopoguerra è stata un laboratorio di sperimentazioni architettoniche che ha avuto molti protagonisti tra cui Franco Albini. L’architetto milanese fu autore, insieme a Caterina Marcenaro, storica dell’arte e direttrice dell’Ufficio Belle Arti del Comune di Genova nel 1950, del recupero delle dimore storiche di Palazzo Rosso e Palazzo Bianco trasformati in musei comunali, i cui allestimenti albiniani sono capisaldi della museografia internazionale.
Il ruolo di Albini fu importante per far sentire Genova moderna, al pari delle opere di Luigi Carlo Daneri e di Riccardo Morandi. L’importanza di Albini è testimoniata dal progetto dei nuovi uffici comunali, dal Museo del Tesoro di San Lorenzo e dalla ricostruzione, con Franca Helg e Marco Piva, del convento di Sant’Agostino, trasformato in museo della architettura e scultura ligure. La rimozione di Albini inizia nel 2001 a opera della fantasiosa Direzione Lavori Pubblici del Comune di Genova, con l’adeguamento normativo funzionale di Palazzo Rosso, fatto dai torinesi Libidiarch. Questo lento processo di rimozione prosegue nel 2013, ancora sotto la direzione museale di Piero Boccardo, quando viene tolta la moquette rossa degli Anni Ottanta, che aveva sostituito il feltro originario. Questa decisione, apparentemente innocua, altera la percezione dello spazio e dimostra quanto Boccardo non avesse compreso la scelta di Albini nel tendere un nastro rosso continuo che uniformasse le stanze eclettiche della dimora nobiliare. Così si manifesta nei curatori dei musei una necessità di assecondare un certo populismo culturale che ha un approccio voyeuristico alla storia, basata più sull’aneddoto e sul pettegolezzo che sui fatti realmente accaduti.

Genova, 2020. Photo Emanuele Piccardo

Genova, 2020. Photo Emanuele Piccardo

ALBINI “RIMOSSO”: DA PALAZZO ROSSO AL MUSEO DI SANT’AGOSTINO

L’ossessione contro Albini prosegue nel 2019 quando viene istituito un nuovo bando con la presunta necessità di rendere efficienti energeticamente gli spazi di Palazzo Rosso (vedi progetto qui). Il progetto, redatto dallo studio fiorentino Guicciardini & Magni, si presenta come un intervento poco rispettoso della preesistenza albiniana. I nodi critici sono l’inserimento dell’impianto di condizionamento che ne stravolge gli spazi e l’installazione delle nuove lampade prese da cataloghi aziendali, anziché progettarle come aveva fatto Albini. La modalità ormai è chiara: la Direzione Lavori Pubblici del Comune indice bandi per gare di appalto più per soddisfare le ragioni della politica populista della giunta che per reali esigenze tecnologiche o di valorizzazione culturale dei musei. La stessa situazione si verifica per il Museo di Sant’Agostino, dove questa volta è incomprensibilmente la Direzione Progettazione e Impiantistica Sportiva a occuparsi della procedura. “Manutenzione straordinaria e restauro dei serramenti esterni” recita il bando della procedura aperta con cui viene affidato l’incarico allo studio Marcolini Barsotti Architetti Associati. Curiosamente nel documento preliminare alla progettazione viene scritto “l’edificio a oggi mostra i segni dell’invecchiamento nel tempo, oltre ad un insieme di fragilità e limiti legati alle tecnologie costruttive proprie delle architetture museali albiniane, quali ad esempio superfici esterne in cristallo strutturale e metallo”. Come se le scelte innovative di Albini e Helg, anziché essere conservate come un esempio di buon progetto, debbano forzatamente essere messe da parte. Infatti “vengono individuati quali bisogni da soddisfare” ‒ continua il documento ‒ “con la presente progettazione, la sostituzione dei serramenti esterni con nuovi che, nel rispetto del disegno originale, ne migliorino: […] l’isolamento termico […] la semplicità nel disegno in analogia all’esistente…”. Non finisce qui, perché viene previsto anche il ridisegno dell’allestimento originario senza determinarne il motivo, un’altra prova delle ostilità nei confronti di Albini e Helg. Purtroppo la questione della rimozione della modernità riguarda tutti, cittadini e addetti ai lavori, se realmente si considera il patrimonio architettonico come risorsa di una comunità e non solo come spot elettorale o come mantenimento del potere dei funzionari comunali. Tuttavia non è solo un problema genovese ma nazionale, come le recenti cronache raccontano delle opere di Pier Luigi Nervi sia a Firenze, con la trasformazione-distruzione dello Stadio Franchi, sia a Roma con lo Stadio Flaminio. Occorre un cambio di prospettiva che fatica a farsi largo, magari imparando dai tedeschi che restituiscono all’uso pubblico la Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe, dopo un lungo restauro di David Chipperfield.

IL PIANO PER IL CENTRO STORICO

Il 23 novembre scorso il Comune presenta il “Piano dei Caruggi”, un documento di sessanta pagine che raccoglie un elenco di progetti per un totale di 137 milioni di euro ancora da reperire. Un piano non piano che non traccia un percorso normativo degli usi e delle funzioni nel centro storico, ma che non è neanche una visione strategica sul futuro della città. C’è un problema di metodo, in quanto un “piano” non si fa solo con lo sguardo monoculare degli architetti ma con un team multidisciplinare composto da sociologi, antropologi, urbanisti, economisti, paesaggisti, statistici, artisti… Tra gli interventi emerge una confusa idea di albergo diffuso e residenze universitarie e l’ennesimo quanto farlocco tema sicurezza, che non può risolversi con l’illuminazione pubblica e il trasferimento di un commissariato di polizia locale. Sono altre le politiche da mettere in campo per ridurre il disagio sociale. Tuttavia l’impressione non è positiva perché il centro storico non può essere considerato come una entità astratta disconnessa dal resto della città, senza considerare le zone limitrofe come l’area portuale. Lo aveva capito nel 1980 Giancarlo De Carlo, quando la giunta Cerofolini lo aveva chiamato per il recupero del quartiere di Prè. De Carlo, grazie al lavoro di Duccio Malagamba che fotografa gli spazi aperti e gli interni dei vecchi depositi portuali, forma abachi tematici che servono per riprogettare tutto, dai rapporti pieni/vuoti, interno/esterno, agli arredi urbani. In questo modo dimostra come la progettazione urbana sia un fatto complesso, ricco di elementi e segni architettonici che contribuiscono a costituire l’insieme omogeneo. Così per attivare il dibattito il gruppo di intellettuali e ricercatori membri della rivista archphoto.it ha posto dieci domande alla politica senza ricevere ancora risposta.

MiglioreServetto Architects Museo della Città Loggia Banchi Genova schizzo. Courtesy Comune di Genova Genova, la decadenza di una città che era avanguardiaL’INUTILE MUSEO DELLA CITTÀ

In questo contesto si inserisce il progetto del Museo della Città nella quattrocentesca Loggia dei Banchi, esito dell’ennesima gara ideata dalla iperefficiente Direzione Lavori Pubblici, vinto da Migliore+Servetto con i genovesi Go Up, tra i cui membri figura il presidente dell’Ordine degli Architetti Paolo Raffetto. Se da un lato è legittimo e legale che Raffetto partecipi ai concorsi, non dovrebbe essere opportuno farlo nella città dove esercita la sua carica istituzionale. Si manifesta dunque un problema di rapporto tra poteri che non consente l’attivazione di un dibattito democratico aperto alla città sulle scelte dell’amministrazione, anche per la presenza nel consiglio dell’Ordine dell’architetto Luca Dolmetta, responsabile proprio del Piano del Centro Storico. Quello che emerge dalla lettura dei render del Museo della Città è una mediocrità progettuale con l’inserimento di una scalinata monumentale sproporzionata rispetto allo spazio esistente, dimostrando quanto gli architetti non comprendano i luoghi che progettano. La Loggia negli ultimi vent’anni ha dimostrato di poter accogliere allestimenti diversi, ospitando mostre di design, fotografia, arte contemporanea e doveva rimanere uno spazio vuoto da riallestire ogni volta. Invece in questa operazione viene sfruttata la posizione strategica della Loggia, a ridosso del porto vecchio, la vera piazza della città, più come infopoint turistico che come museo, nonostante le premesse enfatiche della politica.
L’urgenza è fare per fare senza pensare, che sta portando la città alla autodistruzione nei suoi tesori più preziosi.

Emanuele Piccardo

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Emanuele Piccardo

Emanuele Piccardo

Emanuele Piccardo è architetto, critico di architettura, fotografo e filmmaker. Ha fondato nel 2002 la rivista digitale elettonica scientifica archphoto.it. È stato invitato a tenere lezioni a New York, Princeton, Los Angeles, Roma, Torino, Milano, Venezia, Firenze. La sua ricerca…

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