Il senso dell’Italia per l’architettura carceraria
Ripensare gli spazi destinati alla reclusione è un obiettivo non ancora raggiunto dall’Italia. Eppure le idee e gli spunti non mancano.
Sono trascorsi dieci anni dall’inaugurazione del Giardino degli Incontri nel carcere di Sollicciano, l’ultima opera cui si lega il nome di Giovanni Michelucci, entrata in funzione postuma. “Furono alcuni detenuti che proposero di progettare dentro il carcere un giardino per la città”, raccontò l’artefice della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze in un’intervista concessa a Paese Sera nel 1986. “Così nacque quella esperienza che considero tra le più belle e significative della mia vita”. Nonostante le lungaggini burocratiche che accompagnarono il processo edificatorio, la realizzazione del nuovo padiglione, destinato ai colloqui con le famiglie e dotato di un’area verde, resta una delle rare testimonianze positive di ripensamento dello spazio destinato alla reclusione: un processo ancora disatteso dal nostro Paese.
Aperto nel 1983 ma progettato nel decennio precedente da Andrea Mariotti, Gilberto Campani, Piero Inghirami, Italo Castore, Pierluigi Rizzi ed Enzo Camici, il carcere di Sollicciano esprimeva i requisiti della Riforma dell’ordinamento penitenziario (1975), concepita per superare i modelli carcerari basati sul concetto di isolamento dalla società. La struttura, nella periferia ovest di Firenze, ricorre allo schema planimetrico denominato “a palo telegrafico”, fra le tipologie carcerarie più ricorrenti su scala nazionale, ritenuta idonea a “generare un asse viario in grado di favorire le relazioni di interscambio fra le varie attività svolte all’interno”.
PAROLA AD ALESSIO SCANDURRA
L’idea del Giardino fu alimentata dalla volontà, espressa dai detenuti attraverso la stesura di bozze progettuali, di superare i vincoli presenti negli spazi destinati ai colloqui e dal desiderio di attivare una forma di “apertura” verso la città. A ribadire il valore di quell’esperienza, che permise ad alcuni detenuti in semilibertà di operare con i collaboratori di Michelucci negli spazi della Fondazione intitolata al grande architetto, è oggi Alessio Scandurra. Responsabile, con Michele Miravalle, dell’Osservatorio adulti sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone – realtà attiva dagli Anni Ottanta nella promozione del dibattito sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e nella divulgazione di informazioni sulla realtà carceraria nazionale – Scandurra è stato raggiunto da Artribune in seguito alla pubblicazione del XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, redatto dagli osservatori di Antigone. Dal suo punto di vista, l’Italia appare afflitta da una cronica carenza di concorsi di progettazione in questo specifico settore, con la conseguente scarsa adozione di idee innovative: il risultato è uno scenario pressoché immobile. I dati del Rapporto fissano a quota 191 le carceri attualmente in uso. Di queste, 15 sono state costruite prima del 1700; 3 tra il 1770 e il 1799; 21 tra il 1800 e il 1899; le restanti 152 risalgono all’intervallo compreso tra il 1900 e l’anno in corso. Siamo dunque di fronte “a un patrimonio vecchio, quando non vecchissimo”, afferma Scandurra. “Al di là dello stato di manutenzione e della data di costruzione, l’aspetto più allarmante è l’incapacità di questi edifici di rispondere alle esigenze attuali. Anche quelli ultimati più di recente, spesso però progettati molti anni prima, risalgono a una stagione in cui l’emergenza era la criminalità legata al terrorismo interno e alla lotta armata”. Per quei bisogni, dunque, si avanzavano soluzioni specifiche, considerate oggi inadatte di fronte al quotidiano disagio del sovraffollamento. Come indica il Rapporto, la situazione si attesta sulle “56.436 presenze del 30 aprile 2017, con una crescita di 1.524 detenuti in un semestre. Si tratta di un aumento tutt’altro che trascurabile. Anzitutto perché conferma una tendenza all’aumento dei numeri che avevamo già registrato nei mesi precedenti, ma soprattutto perché questa tendenza viene consolidata e appare in progressiva accelerazione”.
ANALISI E PROPOSTE
A finire sotto la lente di ingrandimento, oltre alla capacità di assicurare garanzie minime nei singoli istituti – dai 3 mq individuali alle aree verdi, dagli spazi utilizzabili per attività lavorative al corretto funzionamento degli impianti – sono i percorsi e, soprattutto, le qualità intrinseche dei manufatti edilizi. “Da solo, il detenuto spesso non può spostarsi da una zona all’altra. Deve essere accompagnato anche a causa dei vincoli architettonici”, prosegue Scandurra. “Se avessimo carceri diverse, naturalmente nel rispetto delle esigenze di controllo visivo, si potrebbe conseguire anche una sorta di ‘risparmio’ in termini di gestione del personale addetto. Inoltre, soprattutto gli edifici ultimati tra gli Anni Ottanta e i primi Anni Novanta, dimostrano sorprendenti segni di usura che inducono a mettere in discussione le qualità edificatorie”.
Un’analisi a parte, infine, meriterebbero gli istituti cosiddetti storici sia in uso, sia dismessi nel corso del Novecento e confluiti nel patrimonio immobiliare del Demanio. “Se facessimo un giro nei centri storici delle nostre città analizzando le ex carceri, rischieremmo di imbatterci in edifici rimasti vuoti, sottoutilizzati, abbandonati. Un esempio interessante arriva dalla Toscana, dal recupero delle Murate di Firenze, un caso riuscito di intervento pubblico che oggi ospitano case popolari, spazi pubblici, culturali e commerciali”. Come sottolineato dall’architetto Alice Franchina, proprio nel Rapporto, indagare la dimensione spaziale del carcere implica sempre il coinvolgimento di una pluralità di aspetti: “Lo spazio non si dà in sé, ma come espressione di un’idea, e in particolare di un’idea di relazioni tra cose: dunque, da una parte, lo spazio del carcere e per il carcere dipenderà dall’idea della pena che si vorrà perseguire; dall’altro esso sarà il contesto nel quale nuove e inedite relazioni potranno instaurarsi”. E, dunque, il destino delle nostre carceri è inevitabilmente influenzato dal Paese che intendiamo diventare.
– Valentina Silvestrini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40
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