Nove storie sulla tappezzeria. Ludwig Wittgenstein e Adolf Loos

Filosofo geniale e dall’indole burrascosa, Wittgenstein si cimentò in un’impresa architettonica che sancì il suo debito, ma anche il suo rifiuto, nei confronti del maestro Loos. Il risultato è una casa-tappezzeria, fedele ai toni poco chiassosi eppure lontana anni luce dal classicismo decorativo. Superando i limiti della funzione e, a tratti, polverizzando i confini della logica.

UN GENIO OSSESSIVO
Il 28 aprile del 1926 Ludwig Wittgenstein si dimette dall’insegnamento nelle scuole elementari a causa di continui incidenti con gli alunni e i genitori provocati dalla sua intransigenza, dal suo carattere brusco se non violento e, insieme, dal suo originale modo di insegnare. Il 3 giugno dello stesso anno gli muore la madre.
I due avvenimenti hanno un effetto devastante sul precario equilibrio psichico del filosofo austriaco. Da diversi anni, infatti, Wittgenstein è ossessionato dall’idea del suicidio, alla quale cerca di scappare pellegrinando da un posto all’altro, inventandosi nuove occupazioni, imponendosi ritmi di lavoro frenetici. Così lo descrive Bertrand Russel che nel 1911-12 lo ebbe come studente a Cambridge: “Un artista, intuitivo e lunatico… ogni mattina comincia il proprio lavoro con fiducia e ogni sera lo conclude nella disperazione”. Ma, alla fine, Russel era rimasto coinvolto dalla disturbata genialità di questo ragazzo tanto da perdere fiducia nella propria e vederlo come il proprio erede, colui che sarebbe riuscito a risolvere i problemi di logica simbolica sui quali stava ossessivamente quanto oramai inutilmente lavorando. Wittgenstein però, a dispetto di Russel, abbandona Cambridge, si trasferisce in Norvegia in una località remota e isolata, per tornare a Vienna e arruolarsi volontario in una guerra che, come annoterà nel suo diario, attraverso il contatto con la morte può fargli capire il valore della vita. Durante la guerra e la successiva prigionia italiana finisce di scrivere il Tractatus Logico-filosoficus, della cui importanza teoretica è convinto – “… La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva”, scrive nella premessa – ma della cui inefficacia operativa è dolorosamente cosciente (“… Quanto poco sia fatto dall’essere questi problemi risolti”).

Ludwig Wittgenstein & Paul Englemann, Kundmanngasse House, Vienna 1928 - porta finestra

Ludwig Wittgenstein & Paul Englemann, Kundmanngasse House, Vienna 1928 – porta

WITTGENSTEIN, L’ARCHITETTO
Tornato a casa, Wittgenstein lascia ai fratelli i propri beni che gli fruttavano una rendita di circa 500mila euro l’anno (in valuta corrente), pensa di prendere i voti, fa l’aiuto-giardiniere vivendo nel deposito per gli attrezzi e, infine, decide – nonostante il diploma di ingegnere e i suoi brillanti studi a Cambridge – di fare l’insegnante delle scuole elementari nei paesi sperduti della Bassa Austria.
Il fallimento della sua vocazione di insegnante e la depressione provocata dalla perdita della madre preoccupano la sorella di Wittgenstein, Margaret Stonborough che in quel periodo aveva dato incarico a Paul Engelmann, discepolo di Adolf Loos, di costruirle una casa.
Margaret decide così di coinvolgere il fratello nell’impresa edilizia, sfruttandone l’inclinazione per l’architettura: Ludwig, infatti, aveva, con insindacabili direttive, aiutato nel 1914 l’amico Eccles ad arredare la sua casa; si era disegnato quasi tutti i mobili del suo alloggio a Cambridge e, infine, era stato il progettista della baita nella quale si era ritirato in Norvegia. Inoltre avrebbe certamente gradito il comune lavoro con Engelmann: lo conosceva da quasi dieci anni, essendogli stato presentato nel 1916 da Loos e con lui, durante la guerra, aveva passato interminabili giornate a Olmuz a discutere di arte, di filosofia, di etica e di suicidio. La comune passione per l’architettura di Loos di cui l’uno era discepolo e l’altro ammiratore, avrebbe, infine, garantito un terreno formale di intesa, forse l’inizio di una attività professionale comune. Wittgenstein, invece, in breve tempo emargina Engelmann, diventando di fatto l’unico responsabile della costruzione della casa della sorella.
Le modifiche che Wittgenstein apporta al progetto di Engelmann sono però, a prima vista, minime. Dalla ricostruzione di Paul Wijdenveld, il quale ha dedicato alla casa una eccellente monografia, emerge oramai in maniera definitiva che l’impianto volumetrico rimase, se escludiamo il piccolo corpo aggiunto dell’ingresso e la zona retrostante; che i prospetti furono modificati solo per ritocchi alle dimensioni delle finestre e alle loro posizioni reciproche; che la divisione degli ambienti interni non fu alterata, a meno di limitati spostamenti dei tramezzi.
Eppure Wittgenstein dedicò alla casa energie immense ed enorme attenzione, tanto da confessare che, dopo una giornata di cantiere, si sentiva sfinito. Ogni questione, anche la più banale, richiedeva, infatti, un’attenzione estenuante. A un fabbro che gli chiedeva se anche un millimetro fosse importante, lui con il suo impaurente vocione urlò di sì. Per decidere l’altezza delle ringhiere obbligava l’operaio a tenerle per ore nella posizione prevista per verificare che fosse effettivamente quella giusta. Gli infissi erano di una sezione talmente sottile che solo una ditta tra le tante consultate fu in grado di realizzarli. L’architetto Jacques Groag, anch’egli allievo di Loos, che fu di aiuto nella contabilizzazione delle opere, più volte perse la pazienza di fronte agli sperperi determinati dall’ostinato perfezionismo.

Ludwig Wittgenstein & Paul Englemann, Kundmanngasse House, Vienna 1928 - scala interna

Ludwig Wittgenstein & Paul Englemann, Kundmanngasse House, Vienna 1928 – scala interna

QUESTIONE DI DETTAGLI
“Ludwig”, ricorda la sorella Hermine, “disegnò ogni finestra, ogni porta, ogni chiusura, ogni radiatore con esattezza, come se fossero strumenti di precisione, e nelle più nobili proporzioni, e poi riuscì a far accettare con la sua inflessibile energia che le cose fossero eseguite con uguale esattezza … Anche al particolare più invisibile fu dedicata la stessa attenzione che alle cose fondamentali, perché tutto era importante, tranne tempo e denaro”.
L’attenzione esasperata di Wittgenstein alle più minute questioni di dettaglio può però essere una chiave di lettura importante. Wijdenveld la attribuisce al gusto classico del filosofo: “La casa”, sostiene, “deve essere associata con le tendenze classiciste che ricorrono nella storia dell’architettura. Comune a queste è la morigeratezza nell’articolazione e l’ornamento, guidata da una regola assoluta della bellezza, in cui è di fondamentale importanza il sistema delle proporzioni”. La tesi appare poco convincente: innanzitutto perché nell’opera di Wittgenstein non si riscontra, come onestamente riconosce lo stesso Wijdenveld, l’applicazione di alcun sistema proporzionale preciso. Le proporzioni che hanno voluto trovare gli esegeti hanno approssimazioni del 5 e più per cento; sono quindi troppo imprecise per essere state fatte proprie da un eterno insoddisfatto che non esitò, a costruzione quasi ultimata, a demolire il solaio del soggiorno per una difformità di pochi centimetri e che il giorno in cui gli infissi furono montati costrinse la povera Margaret Respinger, che nutriva una non troppo segreta passione per lui e non si era accorta delle sue diverse inclinazioni (Ludwig era infatti omosessuale), a passare ore ad aprire e chiuderli per verificare che fossero perfettamente a piombo. La tesi non convince, inoltre, perché Wittgenstein impiegò non poche delle sue energie per spezzare simmetrie (per esempio eliminando una delle due nicchie della stanza della libreria), infrangere allineamenti (ponendo fuori asse la bucatura della porta d’ingresso rispetto alle finestre sovrastanti), differenziare e disarticolare le parti (ideando finestre diverse per ogni facciata).
Per lui ogni concezione classica è troppo intrisa di valori connotativi, di riferimenti metafisici. Wittgenstein, infatti, pur apprezzandone l’opera di riduzione compiuta, critica Loos che di valori eterni riempie la propria architettura. E intuisce che dietro la semplicità e le nude proporzioni del moderno può nascondersi un delitto ancora più grave di quello individuato da Loos nell’ornamento. “Queste case”, diceva contrariato a proposito dell’esposizione del Wiener Werkbund del 1932, “ti guardano e ti dicono ‘guarda come sono graziosa’”.
Da qui, l’avversione del filosofo verso lo spazio tradizionale, carico di valori tattili, espressivi, simbolici e la predilezione per uno spazio neutro, trasparente, cioè tale da non interferire con i singoli oggetti che lo strutturano e con le persone che lo abitano: “Il mio ideale é una certa freddezza. Un tempio che ospiti le passioni, senza che interferisca con queste”.

IL TRACTATUS, LOOS E LA TRASPARENZA
Cosa c’entra tutto questo con la tappezzeria?
Per capirlo bisogna intanto superare un equivoco e cioè che la casa realizzata da Wittgenstein sia una semplice trasposizione in forme spaziali del suo Tractatus. Equivoco fertile ma comunque insidioso e fuorviante.
Che deriva dalla facilità con la quale siamo tentati a sostituire alla locuzione “oggetto architettonico” la parola “fatto” e al termine “spazio” la parola “logica”. Avremo in questo modo la filosofia del Tractatus: i fatti, come gli oggetti architettonici, devono essere depurati da ogni connotazione soggettiva e ridotti al loro semplice valore denotativo; mentre la logica, così come lo spazio architettonico, deve diventare trasparente edificio che ospita i fatti, componendoli ma senza alterarli o modificarli.
Adesso, non vogliamo dire che tutto questo non ci sia. Anche perché la costruzione rigorosamente scientifica (su di essa nel 1928 sarà fondato il Circolo di Vienna e il neopositivismo logico) è il punto di arrivo di una visione ascetica e mistica che caratterizza il percorso spirituale di Wittgenstein. Secondo il quale la trasparenza non è solo lo sforzo massimo di concettualizzazione del dicibile ma anche l’unica finestra da cui ci è permesso scorgere l’indicibile: “Non mi interessa”, affermerà Wittgenstein, “innalzare un edificio, quanto piuttosto vedere in trasparenza, dinnanzi a me le fondamenta degli edifici possibili”, cioè, in sostanza, la struttura del mondo (del mio mondo).
Perché però occorre prendere questa interpretazione con le pinze? Perché non avrebbe avuto senso realizzare una casa a forma di Tractatus e, poi, perché, la posizione di Wittgenstein nei confronti del Circolo di Vienna fu sempre molto critica: figuriamoci se uno snob costantemente esaurito come lui avrebbe potuto mai pensare a fare una abitazione che fosse il manifesto del neopositivismo logico.

Ludwig Wittgenstein & Paul Englemann, Kundmanngasse House, Vienna 1928 - atrio

Ludwig Wittgenstein & Paul Englemann, Kundmanngasse House, Vienna 1928 – atrio

UNA CASA-TAPPEZZERIA
A questo punto ci soccorre alla parola tappezzeria, nella sua accezione più semplice e banale: evitare di mettersi in evidenza. Fare da sfondo.
E chi è il soggetto per antonomasia trasparente? Il maggiordomo. Per capire la funzione del quale dovete entrare nel mondo raffinato e decadente della grande Vienna e dei Wittgenstein che a questo mondo aspirano, pur facendone parte sino a un certo punto: per censo e non per nascita.
Il maggiordomo è colui che permette lo svolgersi dei riti della casa, che ordina millimetricamente le cose, che misura ogni suo gesto evitando la dismisura e l’eccesso, che si veste in modo da passare inosservato, che non ha voce nel senso che non la deve alzare, ma che non deve dire niente di significativo o che faccia trapelare qualsiasi sentimento.
Il maggiordomo, in questo senso, è la perfetta tappezzeria.
Esattamente come deve esserlo la casa. Ecco forse la chiave per capire l’ambivalente relazione di Wittgenstein con Loos: il filosofo apprezza l’idea loosiana che l’architettura non debba essere chiassosa ed espressiva, ma poi non riesce a sopportarne il classicismo e il decorativismo (e difatti Wittgenstein non adopera, e non certo per esigenze di risparmio sui costi, marmi o materiali preziosi). Ed ecco perché, alla fine di questo continuo, ossessivo ed estenuante processo di purificazione, Engelmann non riesce più a sentire l’opera come progettata da lui. Wittgenstein ne ha cambiato profondamente il senso, rendendola appunto pura tappezzeria, tappezzeria platonica.
Pensare quindi la casa di Wittgenstein come un’opera funzionale, secondo la lettura dell’architetto austro americano Richard Neutra, è un errore marchiano. Nulla è più lontano dall’ideale aristocratico del filosofo. E, difatti, mentre nelle abitazioni funzionali del Movimento Moderno gli arredi sono progettati e disegnati dallo stesso architetto che ha curato gli esterni, Wittgenstein lascia alla sorella ampia libertà di azione. La casa tappezzeria è in grado di assorbire tutto: mobili antichi, statue classiciste, paccottiglia, sia pur costosa, di ogni tipo. Lo testimoniano i disegni della sorella Hermine che raffigurano spazi arredati e irriconoscibili rispetto alle foto nude che invece circolano nei libri sulla casa e che tanto piacciono agli architetti. E difatti Ludwig ama gli ambienti come sono stati arredati dalla sorella Margaret. Non è compito dell’architetto orientare i gusti. Suo compito è solo sovrintendere e scomparire. Siamo oltre – nel senso che siamo molto indietro e molto avanti il Positivismo Logico e il Movimento Moderno.  Siamo nella testa disturbata di un filosofo viennese che ha intuito che il massimo del lusso è la sua autodistruzione.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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