In ricordo di Alberto Arbasino, il critico che non temeva la scrittura

Il 22 marzo 2020 moriva Alberto Arbasino, scrittore, giornalista, critico, narratore. A un anno di distanza un ricordo non stereotipato, che rende omaggio alla sua Kulturkritik.

Alcuni classici del Novecento che non possono mettere d’accordo lettori diversissimi scatenano narrazioni biografiche melense o senso del dovere apologetico. L’ambizione di omaggiare Alberto Arbasino senza tradire il tono della sua ‘voce’ è l’auspicio di ogni estimatore consapevole di quanto Arbasino fosse preoccupato di non essere frainteso, al punto da arricchire la sua opera con istruzioni per l’uso e autoesegesi permanente.
Ma dato che gli omaggi ai maestri sono anche una responsabilità, la ricorrenza del primo anniversario dalla sua morte può essere il motivo, per chi volesse fare un “in memoriam”, non per favorire l’ennesimo affresco impressionista ma per esplorare più ‘a caldo’, e più dolorosamente, la sua eredità critico-letteraria e il significato che implicherebbe raccoglierla, o anche solo riassumerne la complessità. Assumendosi i rischi di attualizzare la sua mirifica “cassetta degli attrezzi”, che nulla ha in comune con buona parte di ciò che oggi si autoproclama letteratura, romanzo, scrittura.
E osando domandare: ora che l’ultimo è andato via, ora che ogni nuovo libro venuto sommerge di strazi e lutti, di revival di campi di concentramento, di intimismi della famigliola, di mamme e di nonni, di antiche zie deportate, di tinello e di mangiarini, chi porrà rimedio a questa attuale scarsità di materiali narrativi e invenzione romanzesca, e di eleganza e di grazia, anche nell’invettiva e nell’anatema? Chi accorderà privilegio assoluto alla scrittura a spese di ogni interesse per la trama e per i fatti e i personaggi, nonché per le buone intenzioni e per qualunque nesso fra libro e Realtà? Insomma, chi si farà carico adesso di queste cose importantissime?

I LUOGHI COMUNI SU ALBERTO ARBASINO

Se ricordare o “commemorare”, utilizzando le formule più esauste del giornalese culturale, non basterebbe (come è vero nel caso-Arbasino, nemico di fanfaluche, vezzi e tic linguistici), in quanto operazione avvilente, allora toccherà ribadire ‒ e condividere con questo autore ‒dubbi, bersagli e assunti più sgraditi della sua Kulturkritik. Ma soprattutto interrogarsi su quale sarà il destino della preziosa eredità che ha lasciato, ora ancor più a monito degli allievi.
Senza omettere che il nostro è soprattutto un orizzonte di autori compromessi e impantanati proprio rispetto a quegli elementi che per Arbasino non dovevano essere aggirati. Provando a ricapitolare sia tutti quegli elementi spregevoli per lui, ma graditi al gusto intellettuale di oggi, sia una tassonomia di quello che per Arbasino era fatale alla cultura e alla scrittura critica.
Anche per non aggiungere altro tedio in tanto sdegno; di stanchi ritrattini critici, pettegoli e ombelicali, e di oltraggi giornalistici, Arbasino ne ha subiti tanti ‒ soprattutto per la brama aneddotica che lui suscitava in alcuni impressionabili ‒ e sotto ogni forma pensabile. È servito come ispiratore di ragionamenti su giacche e cravatte, è stato trasformato in nostalgico sketch fotografico, compresso in ritrattistica semplicistica e civettuola, proposto come reperto di archeo-mondanità.
E tra un romantico “ah! chissà cosa avrebbe detto o fatto!” e l’altro, pure adeguato a spunto di rotocalco per rinverdire fatterelli tra Montecarlo e via Veneto, magari legati a lui soltanto indirettamente. È stato utilizzato come cornice testimoniale per inquadrature di altri mondi, nomi e altri personaggi, Gadda, Moravia, Pasolini o Testori. Malamente strapazzato lungo scorciatoie sloganistiche (“gita a chiasso!”, casalinga di Voghera!” e bio-tormentoni casereccio-demenziali (“uh, la spider che si comprò”, “oh, lui, che curava le gardenie del suo terrazzo…”).
Perciò, non si sa più dove stipare queste rievocazioni pettegole e i repêchage meccanici di tutte le più vanesie e minuscole storielle circa quella data piazza, bistrot o soggiorno in cui si aggirava da solo o in compagnia (“sarà stato al Rosati o al Canova, e mangiando quale pietanza esattamente?”).
Quindi, divulgazione adescante di bibelots e magnifiche rose, grande interesse e attenzione per il conversatore, per il “caso originale” e il flâneur, la caccia alle sue elegantissime vestaglie nell’armadio, le stramberie per il collezionista di calzini o foulard comprati da Charvet a Place Vendôme, ai salotti e saloncini e a quello che aveva visto (“con i suoi stessi occhi!”).
Ma non c’è nulla che sia più ingenuo di parlare di Arbasino per l’anagrafe e non per l’opera, per ellissi ombelicali, niente di peggio che parlare di Arbasino ‘senza’ Arbasino e fare a meno del suo sguardo critico, del ‘sound’ menippeo e illuminista che connotava il suo metodo di kulturkritiker fatto di digressioni narrative, encyclopedic farrago, cataloghi, mélange de citations, stilizzazioni, elenchi e dottissimi dialoghi dissimulati in discussioni conviviali, messa in ridicolo di pose e prese di posizione vistose.

Alberto Arbasino - Ritratti italiani (Adelphi, Milano 2014)

Alberto Arbasino – Ritratti italiani (Adelphi, Milano 2014)

CHI ERA ALBERTO ARBASINO

Fondere anatomia e romanzo, progettare strutture aperte e informali senza plot, pensando la struttura come qualcosa di non programmabile ma da ricercare ‘in fieri’ durante la fase di composizione dell’opera, dove il principio compositivo coincide con l’arte della composizione stessa. Sopraffare i pedanti con uso spropositato e travolgente di grandi masse di dati eruditi. Rifiutare la costruzione di personaggi conseguenti, sottraendo le cose a ogni organizzazione di significato, in quanto la vita stessa, pensata come “organizzazione”, è invincibilmente falsa. “Alludere sempre, rappresentare mai!”. E non già metanarrazione, romanzo sul romanzo, ma proprio impossibilità di scriverne uno, utilizzando l’esteso inventario di locuzioni colloquiali schedate dal vivo come uno strumento tarato espressionisticamente. Ed è così che franano tutti i limiti tra journal e testimonianza, realtà e immaginazione, vero e falso, narrativa e saggistica, dramma e farsa, recensione e scrapbook di effetti tragici e comici ottenuti con dislocazioni costanti. Il dispositivo critico totale di Arbasino è fatto anche della mimesis di testi già scritti, cercando nuove combinazioni, indispensabili premesse dell’inventio. Le arti di pensare e dire sono cadute da tempo in discredito, ma la memoria di quel metodo, di quella fotografia ideale del Reale, tra critica e romanzo, consente oggi di ragionare su quello che ha lasciato, per fare in modo che il presente letterario offra migliori chance. E quante e vivacissime le annotazioni arbasiniane per esplorare il mondo dell’arte, contemporaneo o antico (il taccuino di viaggio su Firenze apparso su Il Corriere della Sera nel 2012, per esempio). La sua attività di recensore di mostre non era da critico d’arte ‘puro’, ma dell’osservatore multiplo e digressivo che raccoglie pretesti di Kulturkritik per letture sempre più musive di Realtà e Società. Connettere alla pratica critica del recensore di mostre i congegni del racconto e del saggio era quel che faceva; come visitatore di mostre si definiva dilettante “nel senso del XVIII secolo”, quindi non per obblighi burocratici o di carriera. Sui presumibili artisti ‘contemporary’ si era espresso molte volte ma in alcune in modo più affilato e bello che altrove (visionari artigianelli, apocalittici casarecci, catastrofici rusticani…). E per lui, vicino a Gadda stava solo Roberto Longhi, “miglior fabbro della prosa italiana del nostro Novecento”.

IL FUTURO SENZA ARBASINO

Il sogno arbasiniano, perfettamente avverato, era il montaggio di un congegno in cui tout se tient grazie a un’opera aperta fondata sull’only connect forsteriano, per una letteratura che fosse innanzitutto un giornale di bordo della stesura, non già per mettere a registro il mondo, magari col furbo apriscatole del realismo passe-partout, ma per mimarlo nelle sue crisi e contraddizioni con tutti i mezzi possibili senza buttare via niente. Connettere e intrecciare tutti i materiali disponibili, bassi e alti, sciocchi e serissimi, e i campi disparati e le discipline difformi: storia e letteratura, filosofia e arte, spettacole e cibo e antropologia e sociologia, per una fondamentale esigenza interdisciplinare contro ogni narcisismo e feticismo della iper-specializzazione settoriale. “Il fascino sottile per l’in sé dell’attrezzeria”, Arbasino diceva. Niente fastidiose “motivazioni”: solo, rigorosamente, scandalosamente e sfacciatamente, Letteratura. Invocare l’arte come processo impersonale, moduli, inventari e cataloghi contro l’ispirazione, l’intimismo e gli impulsi: chi mai volesse proseguire la strada arbasiniana cominci pure da qui.

Rubina Mendola

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