“Così hanno distrutto il Festival Fotografia di Roma”. Intervista a Marco Delogu
Dalla nascita nel 2002 alla chiusura nel 2017. L’amministrazione di Virginia Raggi e Luca Bergamo aveva promesso di rilanciare il ruolo della fotografia nella città ma nulla è stato fatto. Resta una grande collezione, che ha smesso però di arricchirsi anno dopo anno.
“Il lascito del Festival per la città è straordinario perché proprio grazie alla sua Commissione Roma, che negli anni ha visto alternarsi alcuni dei più grandi fotografi mondiali, riusciamo ad acquisire al patrimonio delle nostre collezioni civiche una serie unica di produzioni che documentano Roma nel nuovo millennio. Su questa ricchezza costruiremo dal prossimo anno una nuova stagione di promozione della fotografia coinvolgendo nel modo più esteso possibile la città, anche in considerazione della penetrazione che questa forma di espressione e racconto ha assunto nella vita di noi tutti e particolarmente dei nativi digitali”. Con queste parole, due anni fa, l’assessore alla cultura della città di Roma, Luca Bergamo, chiudeva l’esperienza del Fotografia. Festival internazionale di Roma, nato nel 2002. Inutile dire che in due anni nulla è stato fatto di quanto promesso, ma intanto il festival ha effettivamente chiuso e il suo valore di continuità si sta liquefacendo. In questi giorni a Palazzo Braschi (fino al 16 giugno) una mostra propone al pubblico una selezione della collezione che grazie al festival e alla sua “Commissione Roma” è rimasta nel patrimonio della città. Marco Delogu, fotografo anch’egli, che il festival lo aveva fondato nel 2002, sembrava due anni fa essere concorde con una chiusura dell’esperienza nel 2017, oggi a quanto pare è decisamente di un altro avviso e in questa intervista non le manda a dire a Bergamo accusandolo di aver mandato alle ortiche una esperienza per scarso senso di responsabilità. Intanto a Roma l’atmosfera peggiora di giorno in giorno sotto ogni punto di vista e anche il settore della cultura risente di una crisi che non sembra avere fine e che l’amministrazione, invece di combattere, alimenta quotidianamente con scelte e prese di posizione costantemente fuori luogo.
L’INTERVISTA
Marco Delogu, vivi fuori Roma da tanti anni ormai, come vedi la città non vivendola più nel quotidiano?
Roma è la città della letteratura, del cinema, di molto teatro, musica e poesia. E di tantissimi artisti. Le volte che torno a Roma ho una tristezza profonda nel vedere come la città sia in uno stato di totale abbandono da tutti i punti di vista…
Di tanti artisti dici, artisti del passato però. Sul contemporaneo si stenta…
Anche gli artisti hanno bisogno di un tessuto sociale, di sapere che il loro lavoro venga apprezzato. E di sapere che vivere in una città come Roma significava avere moltissime relazioni con tutto il mondo. Negli ultimi anni è una desolazione totale, vivendo all’estero non sento mai nessuno che mi parli bene della città e che mi parli bene della sua scena culturale, forse le rare eccezioni sono sempre pezzi della scena letteraria e poi Zerocalcare e Matteo Garrone, che anche a Londra, nelle serate che abbiamo organizzato, hanno riscosso enorme interesse. Non ho mai veramente capito perché nel Novecento Roma sia sempre stata considerata una città lontana dal mondo dell’arte contemporanea nonostante sia stata abitata e vissuta da una serie di protagonisti: Twombly, Boetti, Burri, Kounellis, Lai, Kosuth, Pascali, Accardi, Fioroni, Schifano, Cucchi e molti altri. Ora la conosco poco, ma sulla scena dell’arte contemporanea mi sembra molto indietro…
E, venendo al tuo ambito, la fotografia?
Beh, solo la fotografia non ha trovato in città una sua forte identità. Quali le cause non saprei, forse la poca tradizione, o il mito dei paparazzi negli anni della Dolce Vita, o di fotografi come Plinio De Martiis che abbandonò la fotografia per aprire la galleria La Tartaruga.
Poi però è arrivato il ‘tuo’ festival. E lo hai chiamato proprio “Fotografia”. Erano gli anni di Veltroni…
Prima del festival ci sono stati alcuni “case history” molto interessanti come Francesca Woodman, Tano D’Amico, e a metà Novecento il bellissimo lavoro di William Klein, venuto in città per lavorare con Fellini. Inaugurato nel 2002, Fotografia. Festival internazionale di Roma ha cambiato molto il rapporto tra la città e la fotografia e in particolare con il progetto “Commissione Roma” ha portato molti dei migliori fotografi internazionali a confrontarsi in totale libertà con la città; è stato il più importante progetto di arte che una grande città del mondo ha studiato e promosso per la fotografia.
Come ti è germinata in quegli anni l’idea di far partire un festival fotografico che, oltre a mostre ed eventi, compenetrasse anche l’idea, ogni anno, di commissionare a un grande fotografo una riflessione sulla città ospitante?
Ho iniziato a vivere la città negli Anni Settanta, in coincidenza con l’avvento della giunta di Giulio Carlo Argan, grande storico dell’arte, che nominò assessore alla cultura Renato Nicolini, architetto pieno di grandi idee e visioni. La loro gestione cambiò radicalmente la città, negli anni difficili del terrorismo: la parte migliore del Movimento del ’77 apriva Roma con idee di condivisione di spazi e arte, Nanni Moretti girava Ecce Bombo, il teatro sperimentale trainato dal Beat 72 aveva un’esplosione e nasceva il gruppo la Gaia Scienza. L’Estate Romana riuniva tutti a vedere film sotto il cielo in posti tra i più belli del mondo. E c’erano registi del calibro di Antonioni, Bernardo Bertolucci, Bellocchio, Fellini, e tantissimi altri.
Che amarcord! In effetti eravamo proprio forti. Eravamo. Poi si raggiunse il culmine e da lì solo una discesa, a quanto pare.
L’apice fu il primo Festival di Poesia sulla spiaggia di Castelporziano, dove per tre giorni, nell’estate del 1979, cento poeti si alternarono a leggere le loro poesie. Giornate indimenticabili dove Burroughs, Ginsberg, Ferlinghetti, Corso, Evtuscenko, Le Roi Jones, dormivano in una dismessa scuola alberghiera a Ostia e la sera salivano su un palco traballante, che infatti crollò, davanti a migliaia di persone. Il festival di Castelporziano ha insegnato a me, e a molti altri, che tutto era possibile. Forse senza quell’esperienza vissuta dal vivo ‒ ero sul palco quando crollò ‒, non avrei pensato al Festival Fotografia e alla “Commissione Roma”.
Una riflessione iniziata da lontano. Sei partito praticamente dalle Guerre Puniche. Torniamo agli Anni Duemila e a come nacque la “Commissione Roma”.
Al termine della fine della prima edizione di Fotografia, nel giugno 2002, comincio a pensare che un festival che si svolge a Roma non può esimersi da un dialogo aperto tra i fotografi e la città, con tutto ciò che il suo fascino e la sua storia rappresentano; poco dopo incontro Josef Koudelka al quale, sull’onda dell’entusiasmo per il successo del primo festival, propongo di lavorare sulla città di Roma. Koudelka accetta e così, in modo semplice ma da un’esigenza profonda, nasce la prima Commissione Roma.
Quali sono stati gli autori delle commissioni successive?
Le commissioni furono poi realizzate da Olivo Barbieri (2004), Anders Petersen (2005), Martin Parr (2006), Graciela Iturbide (2007), Gabriele Basilico (2008), Guy Tillim (2009), Tod Papageorge (2010), Alec Soth (2011), Paolo Ventura (2012), Tim Davis (2013), Marco Delogu (2014), Paolo Pellegrin (2015), Roger Ballen, Jon Rafman, Simon Roberts (2016), Leonie Hampton (2017).
Ci racconti un po’ di episodi, aneddoti, ricordi in qualità di direttore del festival?
Koudelka che mi piomba in campagna nelle vacanze pasquali per fare la sequenza del libro. Io lo metto per la prima volta in vita sua a cavallo, e lui mi dice che voglio passare alla storia della fotografia come l’uomo che uccise Josef Koudelka. Petersen che da svedese si lamentava del “freddo” inverno romano. La pioggia che smette magicamente cinque minuti prima della proiezione del film di Barbieri ai Mercati di Traiano. Parr che a cena a casa mia tira fuori una piccola scatola d’acciaio e offre stuzzicadenti a tutti. Stefania Miscetti che regala a Graciela Iturbide un fantastico libro d’autore di Maria Lai dopo che Graciela era stata folgorata dai suoi lavori. Soth che affitta la casa di Martina Stella e fotografa la doccia con la foto di Michelle Pfeiffer dentro…
Alla fine la città si ritrova una clamorosa collezione, che per qualche giorno ancora è in mostra a Palazzo Braschi.
Mi piace molto l’idea di questa collezione, di lasciare a Roma un grande patrimonio, un punto di partenza per riflettere sulla fotografia e ritrovare quel comune sentire tra molte discipline, primo fra tutti con la letteratura. Credo che con questa mostra si debba ridare a Roma un grande ruolo di città della fotografia così come era stata all’inizio del millennio. Tutto il patrimonio di studenti, studiosi, borsisti delle varie accademie straniere possono utilizzare questa collezione come punto di riferimento, arricchirla. Questo lavoro è iniziato nel 2003 in una città diversa.
Ecco appunto, ti sento piuttosto malinconico, stai parlando solo al passato. Com’era ‘sta città nel compianto 2003?
Accogliente! Diverse realtà, anche non legate al mondo della fotografia, collaboravano al progetto della Commissione Roma. Il punto è che da due anni questo progetto è stato interrotto, forse si riaprirà o forse no, non si sa.
Ma come “non si sa”?!
Purtroppo la città da due anni è ritornata a essere periferia del mondo, e periferia del mondo fotografico: non ci sono idee e mostre importanti, si sopravvive alla giornata senza niente di importante che parta o arrivi nella Capitale. Manca completamente un’idea di contemporaneo e la recente scomparsa di grandi artisti come Cy Twombly e Jannis Kounellis ha molto indebolito tutta la scena artistica. Sai bene come Jon Rafman (Biennale di Rugoff), Graciela Iturbide, Roger Ballen, Martin Parr, Guy Tillim e moltissimi altri protagonisti della Commissione Roma e del festival, come McCullin e la Muholi (sempre Biennale di Rugoff) continuino ad avere un ruolo importantissimo nella scena internazionale; tutti son passati con progetti nuovi e originali in città, e ora si vedono mostre fotocopia e nessuna identità.
In effetti la situazione è a dir poco surreale, e usiamo un eufemismo. Ma tornando nello specifico riesci a spiegarci per quale bizzarro motivo l’amministrazione ha deciso di interrompere il Festival di Fotografia e la Commissione Roma? Cioè queste cose hanno un valore se hanno una continuità, viceversa no. Cosa è successo? Voglio dire: il festival costava anche poco, mentre l’amministrazione ha dilapidato un sacco di soldi sulla presa per i fondelli del Macro Asilo tanto per fare un esempio. Hai bisticciato con l’assessore Luca Bergamo, confessa…
No, non ho bisticciato con Bergamo, lo conosco da tempo e mi spiace che stia lavorando così male, mi spiace per la città, veramente Roma non merita tutto ciò. L’ho anche invitato a Londra un paio di anni fa e ha fatto un incontro in cui, come spesso gli accade, parlava per frasi fatte del ruolo degli intellettuali o della classe creativa o del contemporaneo o di Roma come New York City e dell’Aventino da trasformare in Central Park…
Forse per te a Londra erano novità, ma qui conosciamo perfettamente la filastrocca (purtroppo).
Non lo capisco e la cosa m’intristisce. Con il festival poteva tranquillamente comportarsi da corretto amministratore e indire una call per un nuovo direttore (cosa che correttamente fece Umberto Croppi, e lo dico pur non essendo di certo un estimatore degli anni di Alemanno sindaco) e rilanciarlo in una direzione diversa. Quando decise di non proseguire l’esperienza del Festival di Fotografia, del Cinema America e del Festival di Letteratura, io fui l’unico che non fece polemiche. Ero a Londra a dirigere l’Istituto Italiano di Cultura e pensavo che il festival dovesse continuare la sua vita con un direttore diverso, e che la Commissione Roma dovesse ancora di più rafforzarsi nel panorama internazionale. Il budget era molto basso, circa 50mila euro per il festival (lavoravo molto con le sinergie delle Accademie straniere) e 10mila per la Commission, ma nonostante ciò tutto è stato senza ragione chiuso.
Ma non hai provato a sentire l’assessore?
Ho sentito pochissimo Bergamo e dopo poche e confuse risposte il nostro dialogo non ha avuto un seguito. La città ha dilapidato un patrimonio. Va considerato anche che il festival aveva una ricaduta su parte del settore lavorativo come laboratori tecnici, turismo, editori, tipografie. Non esiste una politica culturale per la fotografia: il festival è stato chiuso, Fotoleggendo ha chiuso, non si creano spazi, non ci si muove a livello cittadino, nazionale e internazionale. Sono debolissime le relazioni con le accademie di cultura straniere, con i musei stranieri (il caso Pink Floyd e Macro via Nizza è emblematico), e la città non ha alcun ruolo nella scena internazionale. Per me molto di tutto ciò è racchiuso nella mancanza di senso di responsabilità, anzi, ancora peggio, nella totale mancanza di assunzione di responsabilità.
Ma se ne uscirà?
Io sono ottimista e credo che ciò finirà presto e da queste macerie nasceranno molte idee. E le idee sono l’unica cosa decisiva.
‒ Massimiliano Tonelli
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