I primi 20 anni del presidente della Biennale di Venezia. Intervista fiume con Paolo Baratta

Parola al presidente della Biennale di Venezia. Una chiacchierata a tutto campo, tra passato e futuro.

Quest’anno Paolo Baratta (Milano, 1939) celebra i suoi vent’anni di Biennale. Oggi la Biennale ci sembra essere stata sempre così, ma in realtà questo modello parte proprio da allora, dal 1999. Prima del ‘99 l’organizzazione e gli spazi erano profondamente diversi, e così l’articolazione delle mostre. Con il Presidente della Biennale ne abbiamo parlato a lungo.

Riusciamo a elencare tutte le innovazioni pilastro del Ventennio Barattiano? Partiamo dal plot della mostra internazionale.
In passato eravamo abituati a una forma tipo della Mostra della Biennale basata sulla presenza di padiglioni esteri da un lato, e su una serie di mostre dall’altro: personali, retrospettive, di gruppo, di movimento o a tema, con la presenza di commissioni e poi di responsabili di settore che ne affidavano la cura a comitati, curatori, un sistema di mediazione complesso, oserei dire affollato. All’estero La Biennale era poi sotto accusa per fondarsi ancora su padiglioni nazionali, in un’epoca in cui era di moda sottolineare ed enfatizzare la avvenuta globalizzazione. Non abbandonare il modello che prevede i padiglioni dei Paesi partecipanti ma semmai rilanciare, affiancandogli un’unica mostra aperta internazionale, fu la scelta primaria. Del modello precedente erano emersi i limiti già da anni, da quando si sentì il bisogno di inserire la sezione Aperto. Ebbene, dal 1999, vent’anni fa appunto, la mostra si identifica con un unico Aperto.

Aperto fa pensare all’Arsenale. Parliamo della crescita di questi spazi…
Per l’espansione della mostra unitaria si crearono gli spazi nuovi (restauro di 55mila mq all’Arsenale monumentale realizzati in parte subito e proseguiti nel tempo), destinati alla mostra e a ospitare nuovi Paesi che nel frattempo crescevano da 57 a 90. La seconda scelta fu quella di nominare un solo curatore responsabile, affidandoci alla responsabilità di una trasparente, pur parziale, scelta delle opere e degli artisti da inserire nel progetto di mostra, senza pretesa di esaurienti soluzioni o equivoche oggettività (di solito frutto di compromessi).

A proposito dell’indipendenza dell’istituzione?
L’autonomia della Biennale a mio avviso non è una facilitazione organizzativa, è il fattore fondante che ne giustifica l’esistenza. Autonomia nello spirito e nei fatti, autonomia dai molteplici interessi (legittimi) che ruotano intorno all’arte e agli enti pubblici. La riforma del 1998 fu una vera riforma anche in questo senso. Non credo che avrei mai accettato l’incarico in condizioni statutarie differenti e meno precise al riguardo.

La Biennale è un sistema complesso…
Naturalmente non c’era solo la Biennale Arte, ma tralascio di ricordare quello che si è fatto per l’architettura, per il cinema, per i tre settori danza, musica e teatro, e poi con l’istituzione dei college e con le attività di promozione verso le scuole, per l’archivio storico che oggi si candida per nuovi sviluppi sia nell’archiviazione su più vasta scala sia nelle attività di ricerca, per non parlare delle risorse umane e dell’organizzazione (oggi una delle migliori del mondo).

Torniamo all’Arte.
Il mondo era cambiato. Ricordo che fui nominato contestualmente alla nomina di Sir Nicholas Serota alla direzione della Tate Modern, che nasceva allora. I sistemi dell’arte si erano evoluti. E anche in Italia. Tanti soggetti nuovi e il mercato con le sue “sollecitazioni” e i suoi exploit spesso inspiegabili. Vedevo accresciuti pericoli di confusione, mescolamenti ed equivoci. D’altro lato vedevo anche come molte funzioni che un tempo venivano “caricate” sulla Biennale, appesantendone il cammino, potevano essere svolte molto meglio da altre strutture nel frattempo cresciute in numero e prestigio. Se si vuole mantenere pluralità e offrire i necessari distinguo, mi pare importante che ciascun soggetto svolga bene la sua funzione particolare, adottando la forma organizzativa più opportuna e mantenendosi massimamente coerente a essa per favorire una lettura chiara da parte dei visitatori, soprattutto di quelli che ancora non lo sono.

Meg Stuart, Built to Last © Chris Van der Burght

Meg Stuart, Built to Last © Chris Van der Burght

Il modello barattiano negli ultimi anni punta anche a far convergere il più possibile mostra internazionale e padiglioni nazionali. Avete indicato ai Paesi partecipanti di “dar retta” il più possibile al tema del vostro curatore. Ritenete di esserci riusciti?
È una questione vecchia come la Biennale e che ha visto nel tempo svilupparsi diverse modalità operative; dall’epoca iniziale, quando le scelte delle “sale estere” erano fatte dalla Biennale, alle epoche in cui una forte diplomazia culturale era al lavoro per orientare le loro scelte, all’epoca in cui nel non ordinato sviluppo della Biennale le nomine dei suoi curatori e l’annuncio dei programmi erano tardivi anche solo per un minimo coordinamento. Anche a tal fine abbiamo introdotto novità.

Una in particolare su questo?
Beh proprio quella dell’anticipo della data di nomina del curatore e delle prime riunioni con i Paesi, il che ha favorito non poco le possibilità di dialogo.

Cos’è cambiato nei padiglioni nazionali?
Hanno seguito sempre più il modello nostro, e cioè quello della nomina volta a volta di un curatore, non più come accadeva in passato affidando i padiglioni a commissari che duravano anni, il che ha accresciuto non poco il pluralismo delle voci. Aggiungo che molti Paesi, tra quelli di più recente ingresso, vivono con rinnovato spirito l’esperienza e la considerano non tanto l’occasione per portare “prodotti locali”, ma piuttosto per mostrare al mondo la capacità del Paese di partecipazione al libero dialogo. Abbiamo avuto vere sorprese sia in Arte che in Architettura. Preferisco comunque un padiglione vitale a un padiglione “disciplinato”. Dare conto degli sviluppi artistici va fatto con immaginazione, non significa “fare stato” degli stessi.

In questi vent’anni non solo la Biennale, ma Venezia stessa è cambiata in maniera clamorosa. Spazi culturali internazionali, investimenti, fondazioni ad ogni angolo, grandi mecenati provenienti da Vienna, Parigi, Mosca che decidono di scommettere sulla città. Quanto conta la Biennale in tutto questo e quanto conta Baratta personalmente?
Credo che conti ma in un senso ben preciso. Per tutti questi anni non ho mai fatto una sola telefonata per promuovere la partecipazione di un Paese alle mostre o per sollecitarne il ritorno; sono state tutte scelte autonome, in ciò siamo decisamente diversi ad esempio da una Expo. Non una delle altre iniziative nel campo dell’arte che si sono sviluppate a Venezia mi ha visto tra i sollecitatori diretti. Purtuttavia sono convinto che l’aver chiarito e, nella continuità, mantenuto e confermato un certo modo di essere della Biennale e il suo ruolo, abbia favorito e direi innescato negli ultimi vent’anni sia il forte aumento delle richieste di Paesi di parteciparvi, sia le nuove iniziative cui lei fa cenno e che hanno diversi motivi ispiratori: mecenatismo, collezionismo, diplomazia culturale. Ancora una volta, però, si conferma utile che siano apprezzate e ben evidenti le differenze di scopo e di impostazione che caratterizzano le une rispetto alle altre e rispetto alla Biennale, e che non siano accomunate tutte in un generico fenomeno di concentrazione.

Torniamo a vent’anni fa. Nel 1998 la sua nomina venne salutata con favore perché finalmente rappresentava una figura manageriale (così si diceva) a capo di un’istituzione culturale. Qualche anno dopo, quando volevano sostituirla a vantaggio di Franco Bernabè, la scusa fu che serviva una figura “più manageriale”… Com’è dunque la storia? C’è sempre qualcuno più manager di te?
Non ho mai usato nei miei confronti la parola ‘manager’. Se proprio mi devo definire, mi chiamerei un amministratore pubblico. Alle istituzioni culturali pubbliche servono persone che sappiano perseguire innanzitutto la missione che a loro è propria, che sappiano gestire i particolari equilibri delle diverse funzioni, e che sappiano dire anche tanti no. Che non si concedano al successo per il successo. Un manager per definizione lavora avendo a riferimento una precisa misura dei risultati economici o comunque riducibili a numeri. Qui è tutto il contrario, i risultati economici sono importanti non per sé, ma perché offrono le risorse per perseguire i veri risultati, che a loro volta non sono riconducibili a numeri. Se devo “misurare” l’efficacia del lavoro svolto e delle scelte compiute, devo ricorrere ad argomenti qualitativi. Lo stesso vale di conseguenza nelle priorità dell’organizzazione interna e delle procedure. Per noi, ad esempio, il rispetto dell’autonomia nostra e dell’autonomia del curatore non è una scelta produttiva, con costi e vantaggi marginali, o è o non è. La natura dei rischi che si devono assumere per non cadere nel conformismo è del tutto particolare. E aggiungo, per contro, che coloro che mi sono succeduti, Bernabè e Croff, con qualunque titolo li si vuole qualificare, è importante ricordare che quanto a difesa dell’autonomia della Biennale si sono comportati in modo esemplare.

Paolo Baratta. Photo Jacopo Salvi, 2018

Paolo Baratta. Photo Jacopo Salvi, 2018

A proposito di quella prima nomina alla fine degli Anni Novanta, dopo vent’anni ci può raccontare come andò? La volle Veltroni, che era ministro della Cultura all’epoca? La volle direttamente Romano Prodi? Intervennero altre personalità? In che circostanze quell’incarico?
Era il ‘98, in primavera. Fu Veltroni, allora ministro della Cultura, cui mi legava conoscenza e personale stima ma non legami di altro tipo, a chiedermi se volevo accettare questa sfida: la Biennale si trovava in condizioni davvero basse ed era appena stata varata la legge di riforma. Accettai la sfida che si dimostrò tale, occorreva modificare tutto, anche l’ordinamento da parastato a diritto privato. Non era la prima volta che venivo chiamato a occuparmi di “cose pubbliche” in situazioni critiche. Vi riconobbi confermato un destino personale.

Quella presidenza durò tre anni e mezzo soltanto e si interruppe con l’arrivo del Governo Berlusconi di allora. Poi però, dieci anni dopo la prima nomina, arrivò una nuova presidenza Baratta. Era il 2008. Come andò invece in quel caso?
Si erano create situazioni tese all’interno del Consiglio di Amministrazione, semplicemente mi si chiese di tornare. Interessante è poi quel che successe nel 2011, quando con mesi di anticipo sulla scadenza si annunciò il mio successore. Ma accadde un fatto inusitato: direttori di giornali di Venezia e il sindaco presero posizione contro la mia sostituzione, il direttore di un giornale fece la scelta temeraria di promuovere una sottoscrizione a mio favore. In poche settimane si raggiunsero le 4.500 firme, tra cui personalità del mondo dell’arte straniere e italiane, ma anche cittadini vari. Tengo la lista come un dono prezioso. Nel turbinio della vita politica fu ritirata la nomina già annunciata e con il nuovo governo il ministro ritenne di confermarmi, il gradimento delle commissioni parlamentari fu alto. Eravamo in ritardo per la nomina del curatore di Architettura, che riuscii a individuare tra Natale e Capodanno. Nella continuità di questi anni ci sono stati anche turbinii.

In questi vent’anni il mercato dell’arte è cambiato profondamente. Le cifre in ballo sono così esorbitanti da mettere in imbarazzo grandi musei e istituzioni globali come la Biennale stessa. Come ha impattato questo sul vostro lavoro? Com’è organizzare una manifestazione avendo come referenti degli artisti e delle gallerie abituate a maneggiare in un mese o in un giorno quello che è il budget magari di dieci anni di una grande istituzione culturale?
Sì, ci sono fenomeni non facilmente spiegabili che hanno però tre effetti, tutti negativi: uno, quello di rendere popolare l’arte contemporanea nel modo e per vie sbagliate, per cui si può persino dubitare che sia vera popolarità; l’altro, quello di disorientare chiunque a essa si avvicini e quel che è peggio, il terzo, quello di introdurre un elemento di sospetto e diffidenza proprio verso l’arte, che richiede di essere avvicinata con apertura, disponibilità, curiosità e infine umiltà. Anche per questo sono sempre più importanti i luoghi dove si possa confidare che le scelte vengano effettuate liberamente e presentate in modo chiaro come scelte e dunque parziali, frutto di una responsabilità definita con il minimo di intermediazione possibile e dove si lavora avendo a cuore solo i valori artistici, e dove le opere sono presentate come nel loro nascere. Ripeto spesso che il nostro compito non è quello di sentenziare ma piuttosto creare condizioni perché sia vivo il desiderio di arte e di dialogo con essa. E per fortuna non siamo soli al mondo. Non si possono evitare i vernissage chiassosi, ma abbiamo reagito con entusiasmo quando abbiamo scoperto che in ottobre per tre settimane il numero di visitatori era superiore alla settimana della preapertura.

Continuando a parlare di numeri, il vostro bilancio è cambiato radicalmente in vent’anni. C’è stato un boom di visitatori abbastanza incredibile: a guardare i numeri e gli incassi di botteghino, hanno iniziato a essere una voce significativa nel conto economico. Come ci siete riusciti e che conseguenze ha avuto e sta avendo tutto questo? Si può dire che il pubblico vi sta rendendo liberi?
È stato ottenuto senza attivare progetti di comunicazione pubblicitaria. E senza piegarsi a strategie di comodo e di ricerca di facile consenso. Quest’anno celebriamo un importante risultato. I visitatori sono diventati effettivamente i nostri partner e, grazie alle risorse che ci trasmettono, possiamo introdurre un’importante novità. Se negli anni passati si doveva chiedere aiuto economico di fronte ai costi di trasporto delle opere (raddoppiati dal trasporto lagunare), possiamo ora far meglio da soli e di conseguenza diminuiranno i “ringraziamenti”. È un bel traguardo anche rispetto alla “concorrenza”.

Ralph Rugoff e Paolo Baratta. Photo by Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

Ralph Rugoff e Paolo Baratta. Photo by Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

Nessun rischio di diventare schiavi del pubblico? Difficilmente la Biennale d’Arte potrà accettare di tornare sul numero di visitatori vicini ai 200 o ai 300mila, piuttosto si punta al milione. Ma questo non obbliga la presidenza a scegliere curatori che abbiano quella inclinazione? Qualche critica sulla precedente Biennale andava proprio in questo senso e, prima ancora di vederla, qualcuno critica la Biennale 2019 di Ralph Rugoff perché riconosce al direttore della Hayward Gallery più una capacità di coinvolgere il pubblico che una capacità di fare ricerca.
Innanzitutto le dirò che di solito non lo chiamiamo pubblico.

Ah no, e come lo chiamate?
Per le Biennali d’Arte e Architettura parliamo di visitatori. La visita è singolare, ciascuno ne è protagonista, sceglie il percorso e il tempo che dedica all’osservazione delle singole opere. Parlare di pubblico sembra già implicare l’idea di un prodotto medio distribuito uniformemente e quindi una strategia artistica volta a catturare il consenso medio. Nella storia delle Biennali questo fu qualche volta il sospetto quando erano al lavoro tutte quelle commissioni con i loro inevitabili compromessi.

Bene. Torniamo alla domanda?
Immaginavo che, dopo aver sentito in tanti anni con qualche tono sarcastico che in fondo non eravamo capaci di attrarre visitatori che in misura assai ridotta rispetto alla Documenta, appena saliti a più alti risultati arrivasse pronta la diffusione del sospetto “Ah! cacciatori di pubblico!”, citando quel “qualcuno” che sempre si trova, disponibile a diffondere il venticello rossiniano della calunnietta.

Qual è stata la sua reazione?
All’inizio del catalogo della mostra di quest’anno ho inserito a proposito la storiella del vecchio, del giovane e dell’asino che vanno in città: o il giovane a piedi o il vecchio a piedi o tutt’e due sul somaro o tutt’e due a terra, sempre c’è il passante saputo con il suo acido commento. Che sia la gelosia? Ma perché perdersi in sospetti: si giudichi dai fatti. E Rugoff non mi sembra proprio personaggio da televisione o copertina, ha un curriculum da studioso e la mostra annovererà non certezze del passato, ma solo artisti, la maggior parte dei quali non è mai stata in Biennale. E poi perché non diciamo lo stesso per Architettura (i visitatori sono saliti da 57mila a 290mila) o, per fare un altro esempio, per il Cinema, visto che per tre anni consecutivi abbiamo proiettato film da Oscar. Perché non sospettare che siamo diventati Oscar-dipendenti? Credo comunque che la Biennale abbia reputazione tale da consentirle di fare mostre ritenute significative e utili anche se non coronate da clamorosi successi numerici.

Esiste un tema dell’entroterra Venezia. La Fondazione di Venezia ha provato ad aggredirlo, ad esempio, con l’apertura del museo M9 a Mestre. Perché la Biennale se ne resta sostanzialmente arroccata tra Arsenale e Giardini nel sestiere di Castello (e al Lido, per il Cinema) rinunciando a fertilizzare altre aree della città?
La Fondazione di Venezia fa quello che c’è scritto nel suo statuto, la Biennale quello che sta nel suo e così facendo fertilizziamo Venezia e l’entroterra oltre che, spero, l’Italia. Riguardo a ciò che lei riferisce, mi scusi ma semplicemente non è vero. Da tre anni allestiamo un padiglione a Forte Marghera come parte della Mostra sia d’Arte che d’Architettura. Da anni nel cinema del centro culturale Candiani di Mestre si offre la possibilità di assistere ai film della Mostra. L’archivio storico che ospita centinaia di studiosi ogni anno è a Marghera. Quest’anno stiamo realizzando a Mestre, in una struttura destinata ad attività sociali, il CIMM – Centro Informatico Musica Multimediale – con apparecchiature, tutor e assistenti, compreso un corso di disk-jockey. Le scuole dell’area metropolitana sono nostre interlocutrici dirette per una vasta serie di attività del settore educational. Arroccarci? Per fortuna abbiamo ristrutturato, restaurato e reso vivo l’Arsenale, per disporre di più razionali strutture noi e per offrire all’incremento dei Paesi un padiglione. Oggi ce ne sono circa trenta ma altrettanti sono ancora fuori, esattamente come all’inizio.

Il mega progetto di Ludovica Carbotta a Forte Marghera

Il mega progetto di Ludovica Carbotta a Forte Marghera

La Biennale (nel vasto novero delle manifestazioni che organizza qui, come anche altrove, ci riferiamo preponderantemente alle mostre di Arte e di Architettura) si confronta con altre manifestazioni per certi versi simili nel mondo e vive in alcuni casi anche un senso di sana competizione, possiamo supporre. Quali sono le manifestazioni che considerate maggiormente “in concorrenza”? Oltre alla Documenta, naturalmente.
La domanda richiede una premessa. La Biennale opera in cinque settori: arte, architettura, cinema, danza, musica e teatro. Come si colloca nel mondo la Biennale? In quanto opera continuamente in cinque settori, è unica. La Mostra d’Architettura (veda le rassegne stampa) dopo gli sviluppi di questi anni gode della fama del più importante appuntamento mondiale del settore. Piaccia o non piaccia, la Biennale (Arte e Architettura) è unica e diversa per la presenza dei padiglioni dei Paesi partecipanti (il sindaco di Chicago voleva ripeterla nella sua città). Di Biennali ce ne sono tante, ciascuna con la sua storia e le sue caratteristiche, già si sentono commenti che lamentano che siano troppe. Non considero concorrenti le fiere e le mostre mercato, per quanto efficaci. Durano pochi giorni e sono organizzate affittando gli stand, è un altro mondo. Se tra non so quanti anni le biennali dovessero diminuire, quella di Venezia sarà comunque l’ultima a sopravvivere.

Il più grande rimpianto di questi vent’anni da Presidente.
Il non essere riuscito a ottenere per i settori Danza, Teatro e Musica le risorse che ritenevo meritassero. Riusciamo a realizzare programmi di grande qualità e i college svolgono una funzione originale e preziosa, con progetti in alcuni casi davvero unici. 2.3 milioni di euro dal Fus per tutt’e tre non è commisurato al valore di quello che si fa.

Probabilmente non avverrà mai, ma un giorno perfino Paolo Baratta potrebbe essere sostituito nel ruolo di Presidente della più importante istituzione culturale italiana. Da chi le piacerebbe essere sostituito? Giornalisticamente sarebbe molto goloso avere una lista di nomi che secondo lei potrebbero portare avanti il progetto sviluppando le questioni oggi in pipeline e magari incrementando ancora.
Giornalisticamente forse sì, ma presidenzialmente no!

Lo temevo. Ci limitiamo a elencare le doti che questo nuovo presidente potrebbe avere?
Innanzitutto non avere altre lealtà se non quelle verso l’istituzione e la sua missione, avere senso dell’autonomia e dell’autorevolezza ma anche una grande capacità di rispettare e difendere l’autonomia di chi si nomina a responsabile artistico, e poi qualche paradosso, grande concretezza e senso dell’utopia. Veda lei.

Secondo quanto scrive Renato Barilli su questo numero di Artribune, per lei ci vorrebbe una sorta di impeachment per come ha trattato l’arte italiana. Suo compito, a detta di Barilli, dovrebbe essere non tanto insistere perché vengano invitati più artisti italiani nella mostra internazionale (quest’anno siamo a due, una percentuale bassissima), quanto scegliere dei curatori che in passato abbiano dimostrato per lo meno di conoscere la scena italiana. Non è un appunto nuovo. Come risponde?
Non ho ancora letto questo articolo. Ho letto già tre anni fa un suo articolo nel quale parlava dello stesso argomento e, per così dire, “ad alzo zero” contro tutti i soggetti operanti nel campo delle arti visive in Italia, non solo della Biennale ma anche della Quadriennale, dei musei, delle gallerie dei privati e dei pubblici, tutti colpevoli. Troppi colpevoli (era esclusa solo la critica). Io sono meno catastrofico, La Quadriennale è operante e semmai va incoraggiata, il Padiglione Italia alla Biennale è una realtà vitale sia per gli artisti sia per la crescita delle capacità curatoriali, negli ultimi anni ci sono state edizioni ispirate a diverse visioni e dalle rilevazioni risulta essere una delle parti più visitate della Mostra. Il vecchio Padiglione Centrale (prima ancora chiamato padiglione Pro Arte) fu ricoperto con l’attuale epidermica struttura architettonica e denominato Padiglione Italia nel 1932, quale simbolo di una Biennale sempre più al servizio degli obiettivi politico-pubblicitari promossi con crescente vigore dal regime fascista. Simboleggiava quel “primato dell’Italia” nel campo dell’arte che si voleva ostentare e far accettare al resto del mondo, operazione che finì solo negli ultimi anni nel grottesco compiacimento di aver introdotto in Italia l’ordine “armonico” nelle arti. Un modello che ostenta all’ingresso o in edifici monumentali i prodotti nazionali è coerente con una occasionale Expo, ma è contrario allo spirito di apertura e riconoscimento reciproco che questa Biennale vuol trasmettere e grazie al quale si sono ottenuti nuovi traguardi di prestigio per se stessa e per l’Italia. Accetto di solito consigli per crescere, non per fare passi indietro. Circa le nostre attenzioni verso i giovani artisti italiani in vari campi si possono visitare i nostri college.

Prossimi vent’anni della Biennale. Cosa deve fare la manifestazione per restare centrale nel panorama mondiale con mille altre biennali, coi baricentri che si spostano verso l’Asia, con la concorrenza che aumenta, col mercato dell’arte che ha trasformato alcune gallerie in spaventosi conglomerati finanziari? Facciamo un po’ di futurologia della Biennale e immaginiamoci a Venezia nel 2040.
Deve saper rimanere se stessa, sapere ciò che va mutato e per il resto tener la barra dritta. Deve sempre chiedersi perché esiste. Deve aver cura della sua particolare collocazione, deve sempre sapersi giovare dell’essere attiva in tanti settori, a contatto continuo con artisti di ogni tipo. Questa è la sua fortuna perché continuamente rafforza e rinvigorisce la sua sensibilità e il suo attaccamento ai valori artistici rispetto agli altri interessi.

Massimiliano Tonelli

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Massimiliano Tonelli

Massimiliano Tonelli

È laureato in Scienze della Comunicazione all’Università di Siena. Dal 1999 al 2011 è stato direttore della piattaforma editoriale cartacea e web Exibart. Direttore editoriale del Gambero Rosso dal 2012 al 2021. Ha moderato e preso parte come relatore a…

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