Dalle gallerie alle fiere. Intervista ad Alessandro Rabottini

Alla guida di miart dal 2017, Alessandro Rabottini ha regalato nuova linfa all’appuntamento fieristico milanese, che tra un mese alzerà il sipario sulla nuova edizione. Lo abbiamo invitato a riflettere sullo stato di salute delle gallerie e sul ruolo giocato dalle fiere nello sviluppo dell’arte contemporanea.

Come è cambiato il modo di “fare fiera” oggi rispetto al mondo pre-crisi?
Quello che ho imparato in questi anni di direzione artistica è la fondamentale importanza che bisogna dare allo sviluppo di contenuti sempre più precisi. Non è più sufficiente vendere metri quadrati alle gallerie senza creare per loro un contesto di attenzione e senza stabilire un dialogo profondo e duraturo sui contenuti. Questo ci mette nelle condizioni di poter offrire al nostro pubblico un’esperienza articolata, fatta di proposte che abbracciano un arco temporale estremamente ampio, con il desiderio che ciascuno stand abbia una sua peculiare individualità.

Cosa intendi?
L’arte ha bisogno di attenzione, e per ottenerla bisogna creare un contesto in cui i rumori di fondo siano ridotti al minimo. Inoltre, credo una fiera debba intrattenere un rapporto progettuale con la città che la ospita. Questo vuol dire lavorare insieme ai molti attori che fanno la vita culturale di una città affinché la settimana della fiera sia viva sia dentro che fuori i padiglioni fieristici, e Milano in questi anni ha confermato il suo statuto di destinazione culturale internazionale anche in occasione della Milano Art Week, frutto del lavoro che miart con Fiera Milano e il Comune hanno fatto mettendo in rete le istituzioni pubbliche, le fondazioni private, gli spazi non profit e i progetti concepiti per quella particolare occasione.

Molte gallerie stanno vivendo un momento difficile e di perplessità rispetto alla partecipazione alle fiere.
Non credo sia soltanto una questione economica, benché ci siano sostanziali differenze tra fiere molto costose e fiere più economiche. Il fatto è che la partecipazione a una fiera richiede molto impegno nei mesi precedenti, durante l’evento e nei mesi successivi.

Spiegaci meglio.
Bisogna avere un buon progetto e una buona selezione di opere, capire come entrare in sintonia con il pubblico locale, fare promozione, mettere a budget trasporti e movimentazione dello staff, e sottrarre l’intero staff o parte di esso alla presenza in galleria per una settimana. Tutto questo incide sulla quotidianità del lavoro di galleria in modo significativo e, con la proliferazione delle fiere su scala mondiale, la frequenza sempre maggiore di questa incidenza ha radicalmente trasformato il modo in cui il modello tradizionale di galleria ha fino ad ora operato.

E quindi?
Quindi è comprensibile che la maggior parte delle gallerie valuti con attenzione a quali fiere sia meglio partecipare, ma la funzione della fiera di aprire nuove relazioni con i collezionisti e di consolidare relazioni esistenti non mi sembra sia in discussione, tutt’altro.

Alessandro Rabottini. Ph. Marco De Scalzi

Alessandro Rabottini. Ph. Marco De Scalzi

Com’è cambiata la proposta all’interno degli stand? Hai visto delle inversioni di tendenza?
Mi sembra che, in generale, l’attitudine che prevale sia quella di trattare il booth come un biglietto da visita in grado di comunicare al pubblico qual è la direzione della galleria, la sua specificità, il suo prestigio. È come se fosse diventato un format, un medium a disposizione delle gallerie per comunicare, ad esempio, la rappresentanza di un nuovo artista o l’acquisizione dell’estate di un artista storicizzato, o per mostrare un aspetto della propria programmazione.

Perché succede questo?
Credo dipenda dal fatto che le gallerie sono sempre meno frequentate – e questo è un aspetto negativo su cui bisogna lavorare – e che per molte di loro la fiera rappresenta un momento fondamentale di incontro con i collezionisti, la stampa e le istituzioni.

Come evolverà il format delle fiere?
Stiamo vivendo un momento storico in cui tutte le strutture che abbiamo conosciuto fino ad ora stanno cambiando radicalmente, dall’editoria fino all’idea di museo, solo per restare nell’ambito dell’arte. Paradossalmente la fiera è un formato che è rimasto molto fedele a se stesso, vale a dire una suddivisione per stand e un arco di tempo estremamente limitato. Nella sua apparente semplicità, è un formato complesso, fatto di equilibri molto delicati, e con un ingranaggio che ha bisogno di un anno di lavoro per poter funzionare.

Che tipo di riflessioni state facendo a miart?
Credo che l’innovazione sia necessaria – e il lavoro di Fiera Milano va in questa direzione – ma deve essere un’innovazione a favore delle gallerie e del pubblico, perché in fin dei conti il nostro lavoro è favorire relazioni sempre più solide tra i due termini di questa equazione. Bisognerà lavorare sempre di più in futuro affinché lo scambio tra le gallerie e il pubblico dei collezionisti, degli amanti dell’arte e delle istituzioni sia uno scambio a lungo termine, che si estenda oltre i confini temporali e spaziali della fiera, così come bisognerà fare in modo che la fiera sia percepita come un attore nella vita culturale della città e della nazione che la ospita in modo profondo e strutturale.

Santa Nastro

www.miart.it

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #47

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Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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