Futuro remoto. Dialogo con Pietro Guida

In occasione della mostra “Pietro Guida. Opere costruite 1960-1975”, allestita al museo Sigismondo Castromediano di Lecce dal 20 luglio, a cura di Lorenzo Madaro e Brizia Minerva, pubblichiamo un estratto (rimaneggiato per l’occasione) dell’intervista a Pietro Guida.

Riprende “Futuro remoto”, la rubrica dedicata ai maestri trascurati dal sistema dell’arte, con un maestro della scultura italiana contemporanea. La casa-studio di Pietro Guida (Santa Maria Capua Vetere, 1921; vive a Manduria) sulla Manduria-Francavilla Fontana è un villino dei primi del Novecento circondato da un uliveto. Le sculture figurali e costruttive convivono in questi spazi all’insegna di un rapporto simbiotico con la natura: alle volte la nascondono, altre ne esaltano le forme e i colori, spesso si dividono alla pari l’area del terreno agrario tra vasi, piante spontanee e gerani. Il cemento dei corpi umani si aggroviglia al sole, vive un paradigmatico stato di connessione tra terra e cielo; i mattoni, il ferro arrugginito o i colori sbiaditi dei tubi modulari non fanno perdere il valore progettuale e concettuale delle sculture “costruite”, vere e proprie architetture di materia che innescano un rapporto dialettico tra opera e spazio e una costante riflessione sulla scultura e il suo stato intrinseco. È percorrendo quegli spazi della sua casa-studio – tra ambienti interni ed esterni – che questa mostra è nata, con la prospettiva di un vero e proprio focus sul lavoro non figurale di Pietro Guida datato 1965-1975, anche se le primissime opere di questa fase sono del 1960, in mattoni, in precario stato di conservazione e quindi fragili e attualmente non trasportabili.
La mostra Pietro Guida. Opere costruite 1965-1975, in programma nel museo Sigismondo Castromediano di Lecce grazie all’assessorato all’industria turistica e culturale della Regione Puglia e del Polo biblio-museale della provincia di Lecce, intende quindi concentrarsi su uno specifico ambito, quello più sperimentale, del più vasto e articolato percorso del maestro, con i suoi novantasette anni. E non è un caso che questa mostra nasca adesso, in un momento specifico per la cultura visiva italiana e internazionale (e per la scultura soprattutto), sempre più proiettata verso un recupero, che talvolta scade in un vintagismo ed epigonismo esasperati, di intuizioni, esperienze e declinazioni dell’arte degli Anni Sessanta.
Pietro Guida invece ha lavorato su questo fronte, con audacia – considerando anche la condizione periferica in cui sono nati questi lavori – negli anni in cui queste esperienze andavano a formarsi nella sua e nelle altrui coscienze. Le istanze strutturali, il ricorso al monocromo (nel caso di queste opere, ai colori industriali dell’epoca), lo sradicamento traumatico da quella retorica rurale tipicamente meridionale, che anche in questa regione persisteva, la costante mancanza di un’ideologia di natura politica alla base di queste opere, consentono a questa fase della ricerca di Pietro Guida di identificarsi nelle pagine più stimolanti della cultura visiva di quegli anni, non solo di Puglia.
Come nasce la ricerca astratta di un artista che a trentanove anni decide di superare la figurazione per operare – e così sarà per quindici anni – sul fronte costruttivista-modulare, per poi ritornare a un certo punto (esattamente dopo il 1975) alla scultura figurativa?
È nel suo studio che abbiamo conversato anche in quest’occasione: la conversazione che segue è pertanto frutto di continui studio-visit e dei dialoghi che ne sono conseguiti.

Pietro Guida. Opere costruite 1960-1975. Exhibition view at Museo Sigismondo Castromediano, Lecce 2018. Photo Antonio Leo

Pietro Guida. Opere costruite 1960-1975. Exhibition view at Museo Sigismondo Castromediano, Lecce 2018. Photo Antonio Leo

L’INTERVISTA

Nel 1947 hai conseguito il diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli e in quel torno di anni, assieme ai tuoi compagni di strada, tra cui Raffaello Causa, Renato De Fusco, Anna Maria Ortese e Armando De Stefano, militi nel Gruppo Sud, legato a un recupero dell’espressionismo e definito da Ferdinando Bologna la vera spina dorsale del rinnovamento dell’arte napoletana e la matrice di tutti i più importanti movimenti che seguirono. Sono per te anni di riflessione sulla scultura figurativa, attraverso le radici del Novecento che vanno da Arturo Martini a Marino Marini. Che tipo di spazio avevano, all’epoca, in area napoletana le istanze legate all’arte astratta?
Mi sono iscritto all’accademia nell’ottobre 1939. All’epoca non c’era nessuna possibilità di ragionare sulla scultura astratta, ma attraverso Emilio Notte arrivò qualche istanza sul Futurismo. Il primo scultore per cui ho avuto un interesse – che ho tuttora – è stato Arturo Martini, maestro della scultura intesa come narrazione e poesia. Intorno al 1944-1945 ho iniziato a guardare anche alla scultura di Henry Moore, che mi interessò per qualche anno.

Raccontami di qualche esperienza culturale legata agli anni della tua formazione.
Bisogna tener presente che dal gennaio 1940 fino al 1946 sono stato militare. Al termine di quell’esperienza ho fatto parte del Gruppo Sud, che – bisogna riconoscerlo – mi pare sia stato, in seguito, un po’ troppo esaltato per la sua portata, in fondo eravamo quattro sfessatelli studenti dell’Accademia, vicini a Raffaello Causa, e non avevamo grandi pretese. Ci vedevamo al Caffè Moccia in via dei Mille e avevamo al massimo i soldi necessari per due caffè da dividere tra noi. Pensa che non avevo neppure i soldi per comprare il biglietto del pullman e quindi percorrevo costantemente chilometri e chilometri a piedi. Per disegnare, e disegnavo moltissimo e rapidamente, usavo carta di recupero, che costava pochissimo, o addirittura vecchi giornali.
Dopo il congedo mi sono ritrovato al terzo anno d’Accademia. Delle lezioni ricordo soprattutto quelle della professoressa di storia dell’arte Costanza Lorenzetti, allieva di Adolfo Venturi: lei si metteva sotto il braccio di uno di noi, e andavamo in giro per chiese alla scoperta delle opere d’arte della città. Frequentavamo la Galleria Blu di Prussia, dove si è tenuta la mostra del Gruppo Sud nel 1948, eravamo sempre propensi a un dialogo con gli altri artisti, tra noi amici c’era un clima di fraternità, che è durato per sempre.

Nell’ottobre 1949 hai iniziato a insegnare in Puglia. Con il trasferimento a Manduria inizia una nuova fase della tua vita.
Dopo il diploma dell’Accademia ho frequentato molto Napoli, ma non ce la facevo economicamente, perciò mi sono dovuto dedicare all’insegnamento. Ho iniziato a insegnare nella scuola media di Castellaneta e Massafra. Dopodiché a Manduria, dove ho insegnato undici anni. Nel 1960, fu istituita, a Lecce, l’Accademia di Belle Arti. Direttore Armando De Stefano, mio compagno all’Accademia di Napoli e amico. Andai a salutarlo. Almeno da sei mesi, mi disse, aveva cercato invano di rintracciarmi per affidarmi l’insegnamento di scultura. Sia perché allora non era facile comunicare, sia perché ostacolato, lo appresi in seguito, da chi aveva interesse a non farmi rintracciare. Racconterò un’altra volta il perché.
Mi informò che Perez, primo nominato, aveva lasciato l’incarico dopo solo due lezioni e così pure un altro di cui non ricordo il nome. Mi invitò a presentare una documentazione che mi valse gli elogi della commissione esaminatrice, De Stefano, Brancaccio e Greco, e la nomina a docente del corso di scultura. Incarico che tenni dal 1960/61 al 1970/71. Nel 1970/71 contemporaneamente, pur mantenendo l’incarico all’Accademia, fui nominato direttore del liceo artistico di Taranto. In seguito optai per il solo liceo artistico di Taranto. Dal 1989 sono in pensione.

Pietro Guida, Opera costruita, 1963. Photo Archivio Pietro Guida, Manduria

Pietro Guida, Opera costruita, 1963. Photo Archivio Pietro Guida, Manduria

Quando hai esordito, in Italia imperversava la pittura informale, che anche in Italia meridionale – nonostante ci fosse ancora una tradizione legata alla figurazione – ha iniziato a prendere piede. Tra la fine degli Anni Cinquanta e i primi Anni Sessanta l’arte cinetica e programmata avviano le basi per una ricostituzione della forma progettata, l’arte non doveva più essere frutto di un gesto istintuale e materico, ma di una progettualità predefinita, anche grazie all’utilizzo di materiali industriali provenienti dalla stretta contemporaneità tecnologica. La tua scultura di quegli anni risente di tali istanze.
L’Informale ha coinvolto tantissime persone, anche i ragazzotti che non sapevano fare niente pretendevano di essere degli artisti e con l’Informale si trovarono tutti a loro agio. Un pittorucolo qualsiasi, che era soltanto un pittorucolo, lo si faceva diventare un grande artista o, addirittura, un grandissimo scultore.
Ma per comprendere le ragioni di questa deriva a mio parere dobbiamo risalire al 1921, anno in cui fu costituito il Partito Comunista a Livorno. Antonio Gramsci precisò che bisognava servirsi della cultura e degli intellettuali. Il vero intellettuale, però, è libero, non prende una tessera, perciò considero determinate azioni decisamente paradossali. Pensiamo a Giulio Carlo Argan, che era comunista, e avendo un grande potere fece in modo di aiutare tutti questi artisti a cui alludo, che in quel particolare momento storico, prima l’Informale e poi la Pop Art, avevano scelto la sinistra e si erano adeguati: bastava intitolare le opere: Omaggio a Che; Compagni o Festa Cinese. E a chi ne faceva parte, è andata bene: di qui le rendite e gli appoggi che durano ancora adesso.
Libero da ogni condizionamento, non allineato, reagii con le Opere costruite. Prima, però, avevo fatto scultura figurativa. Ho iniziato nel 1952-1953 a impegnarmi con un lavoro autonomo. Nel 1958 presentai una personale alla galleria Selecta di Roma. Tra gli altri, ebbi la visita di Pericle Fazzini e Peppino Appella, allora esordiente critico e storico dell’arte, che ricorda di averla vista personalmente, giovanissimo.

Già con questa mostra che citi si evince un cambiamento in atto; come altri artisti di quegli anni inizi a virare verso esperienze legate all’astrazione ma senza dimenticare le radici figurative della tua ricerca: nascono così le opere legate al tema del ficodindia.
Sentivo la necessità del rinnovamento, cominciai però con un compromesso con me stesso.
Mi innamorai dei fichidindia, che iniziai a riprodurre in scultura. Con l’occasione, vorrei ricordare che un mio lavoro di questo periodo, alto circa 180 cm in cemento, esposto varie volte, fra cui alla 8^ Quadriennale romana del 1959, regalata molti decenni fa all’Accademia di Belle Arti di Lecce, non si sa che fine abbia fatta. E a proposito dell’accademia leccese, mi domando perché adottò, fin dagli Anni Settanta, una forma di ostracismo nei confronti di De Stefano prima e di Guida poi.
Filiberto Menna, nella presentazione di una mia mostra personale a Bari, nel 1963 [alla galleria La Metopa, N.d.R.], ha capito che alla base del mio lavoro di allora, già astratto, c’era un aggancio figurativo: nelle mie prime opere astratte, realizzate con i mattoni, c’è difatti la nostalgia dell’immagine.
Intendevo saggiarmi come scultore astratto per capire se ci fosse la possibilità di arrivare all’armonia attraverso la scultura astratta, rifiutando però le esperienze dell’Informale.

La ricerca dell’armonia della forma è una costante nel tuo lavoro, anche in quello figurale degli Anni Novanta e degli anni recenti. Un altro punto di contatto profondo tra queste apparentemente inconciliabili visioni è il progetto disegnato. Vedo qui attorno a noi dei disegni superstiti di quegli anni che ci fanno comprendere come l’opera fosse il risultato di un processo di progettazione preliminare in cui la luce, lo spazio e il ritmo stesso delle forme configurano, all’unisono, una “fantasia razionalizzata”, come le definisce Franco Sossi nel saggio La scelta del presente del 1970.
Sì, c’era un progetto iniziale che ti fa comprendere che il pezzo lo studiavo, che c’era un lavoro alla base di tutto. Questi disegni sono importanti per capire l’aspetto ideativo del mio lavoro scultoreo di quegli anni, su carta studiavo la concatenazione dei mattoni e proprio per questo le opere di questi primi Anni Sessanta – così come quelle successive – sono progettate a monte. Esposi quelle sculture alla galleria del Cavallino di Venezia. Era il 1962. È stata una mostra importante quella di Venezia, nata grazie al gallerista Carlo Cardazzo, che ho conosciuto tramite la sua compagna, Milena Milani, che conosceva Gino Montesanto, mio amico scrittore. Cardazzo mi ha quindi consentito di organizzare la mia mostra da suo fratello Renato.

Locandina della mostra di Pietro Guida nel 1967

Locandina della mostra di Pietro Guida nel 1967

Dopo questa mostra c’è il passaggio alla scultura in ferro. A Taranto gli artisti salutano con entusiasmo l’inizio della grande industria e tu entri in sintonia con questo materiale. Nascono nuove opere, anche di grandi dimensioni.
Ero molto amico del fotografo Ciro De Vincentis, che collaborava con l’Italsider. Mi portò lì a Taranto per vedere i grandi tubi. Fino al 1975 ho lavorato tanto su questo fronte. Ma io ero uno innamorato della scultura di Arturo Martini, sin da ragazzo. Amavo la sua capacità di raccontare attraverso la forma le passioni e gli episodi. Per circa quindici anni mi sono impegnato sulla figurazione, ho realizzato parecchi gessi che poi ho distrutto. Ho lasciato la scultura in cemento per un motivo pratico, erano fragili, per la mostra di Venezia dovetti fare le gabbie in legno.
L’Italsider era una cosa nuova, terribilmente nuova. Avevano creato un circolo culturale, La Vaccarella, e lì abbiamo concepito le grandi sculture con le lamiere curvate e che si potevano curvare solo lì: per la prima volta in vita mia vidi questo spettacolo.
Vivendo in Puglia, negli Anni Sessanta, ero nell’isolamento più totale. Parlavo con gli amici, con i quali mi intrattenevo anche telefonicamente o via posta, ci confrontavamo, andavo a Roma a trovarli, ma nei fatti a Manduria ero isolato nel modo più completo, tanto che la prima mostra qui l’ho fatta dopo 65 anni che mi sono trasferito in questa città.
Tornando al passaggio dall’astrazione alla figurazione, così come fanno i grandi fumatori, dalla sera alla mattina mi sono tolto il vizio della scultura astratta.

Franco Sossi è stato il critico pugliese più attento e militante degli Anni Sessanta e Settanta, l’unico con un respiro nazionale, ed è stato anche tuo compagno di strada. È autore di fondamentali saggi dedicati alla ricerca degli Anni Sessanta, al rapporto tra la scultura e lo spazio e la forma, alla relazione intrinseca tra materia e identità formale e al linguaggio stesso della scultura. A suo dire “Gli schemi compositivi adottati da Pietro Guida per le sue opere costruite – realizzate con capacità artigiana – sono caratteristici della rifioritura di quel geometrismo come più valido mezzo di comunicazione, ripreso da qualche anno sia in Europa che in America e sviluppato attraverso e oltre l’Informale. Un geometrismo, però, non fine a se stesso, ma utilizzato per mettere a fuoco la sua visione, a strutturare le immagini che, appartenendo all’iconografia della nostra mente, sono ricche di componente fantastica, per cui sarebbe più esatto parlare di gusto fantastico della geometria”. Ho citato questo passaggio tratto dal suo volume Luce spazio strutture (1967) per individuare uno degli aspetti peculiari delle tue Opere costruite secondo la prospettiva di questo straordinario critico ingiustamente dimenticato nella Puglia e nell’Italia del presente. Raccontami del tuo rapporto con Sossi.
Arrivato a Manduria per l’insegnamento, ricevo una telefonata da Roma del pittore e amico Enrico Accatino, che mi comunica di aver conosciuto un giovane serio critico d’arte, di Taranto, Franco Sossi. Sossi venne a Manduria per vedere le mie opere. All’epoca lavoravo sul figurativo. Mi portò un suo amico che voleva fare il pittore [Nicola Carrino, N.d.R.], con il quale abbiamo fatto diverse mostre. Franco Sossi era molto bravo, attento, purtroppo il suo nome oggi è quasi dimenticato.

Come si è sviluppato il vostro rapporto?
All’epoca ci si vedeva ogni tanto. Ha seguito, capiva che era una naturale passaggio il transito dalla figurazione all’astrazione. I tempi non consentivano di proseguire su certi temi, bisognava perciò innovarsi, ma erano istanze sentite.
Sono arrivato in Accademia come scultore astratto. Dicevo però ai miei allievi che in accademia bisognava imparare un mestiere, non si sta lì per fare gli artisti: io li facevo disegnare.

Pietro Guida, Opera costruita, 1971. Photo Antonio Leo

Pietro Guida, Opera costruita, 1971. Photo Antonio Leo

Con la mostra nel museo Castromediano di Lecce, per la prima volta, c’è un focus su questo specifico momento della tua ricerca. Cosa pensi di quella fase e come la inquadri oggi rispetto a tutto il tuo lavoro?
Oggi per me la scultura deve essere una scultura di sentimenti, passioni e rappresentazioni. La scultura astratta per me non esprime questi aspetti. Oggi la scultura non esiste più, i miei due riferimenti massimi sono Bernini e Martini. Michelangelo, a dire il vero, non mi piace troppo e Rodin non mi piace proprio. Rispetto a questo momento della mia vita cosa dovrei dire? Penso di aver lavorato troppo. Rispetto alle mie opere astratte, che tu, Lorenzo, hai sempre molto rispettato, cosa dire? Non spetta a me giudicarle, a un certo punto le ho abbandonate.

Raccontami infine dei tuoi progetti per il futuro
Quello di morire [ride, N.d.R.]. A parte tutto, mi sarebbe piaciuto fare una scultura ancor più essenziale, eliminare la piacevolezza di certe forme. Mi piace concludere questa piacevole conversazione, a proposito di scultura tradizionale, dicendo che andando indietro nel tempo, sintetizzando, arriveremmo al Padre Eterno, che con la creta modellò l’Uomo a sua immagine e somiglianza: primo scultore, ma figurativo».

Lorenzo Madaro

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Lorenzo Madaro

Lorenzo Madaro

Lorenzo Madaro è curatore d’arte contemporanea e, dal 2 novembre 2022, docente di ruolo di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia delle belle arti di Brera a Milano. Dopo la laurea magistrale in Storia dell’arte all’Università del Salento ha conseguito il master…

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