Valentina Dotti. Un camino come libreria

Classe 1987, da piccola si divertiva a fare la ricercatrice, raccogliendo insetti, rompendo pietre e collezionando nella campagna bresciana tutto ciò che suscitava il suo interesse, la sua curiosità, e ciò che a quel tempo le sembrava prezioso. Con alcuni amici ha fondato lo spazio autogestito Qasba, chiuso dopo qualche anno di attività. Il programma Erasmus l’ha portata in Francia, ed è a Parigi che ha deciso di stabilirsi. Il resto, dice, “è tutto in divenire”.

Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Sto leggendo Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas, Viaggio al centro della Terra di Jules Verne e Dialogues di Gilles Deleuze e Claire Parnet. Ascolto quasi tutto. Dipende molto dallo stato d’animo; in questo momento ho una passione per la musica elettronica e techno.

I luoghi che ti affascinano.
Gli spazi molto aperti e le viuzze.

Le pellicole più amate.
Difficile fare una scelta, ma nella top ten ci sono: L’inquilino del terzo piano, Vertigo, Il gabinetto del dottor Caligari e Il fantasma del palcoscenico.

Artisti guida.
Fischli & Weiss, Katsushika Hokusai, Lucio Fontana e Gino De Dominicis.

Carta ritagliata, cut&paste, grafite su libro, colla vinilica e una buona dose di artigianalità fai-da-te: una pratica che, in alcuni casi, collima con la più comune e diffusa arte del bricolage. Un confine delicato…
Bricoler vuol dire armeggiare e con bricolage si definisce una pratica generica dell’arrangiarsi. Questo mi permette soprattutto di progettare. Alcuni dei miei lavori si sviluppano mantenendo un’identità un po’ volatile e veloce vicino a questa prassi, altri per il momento rimangono progetti che richiedono di essere formalizzati in altro modo.

Molti dei materiali che impieghi sono particolarmente fragili e soprattutto deperibili nel tempo. Tracce destinate a svanire, più che oggetti.
Penso alla traccia più come a un qualcosa che è sopravvissuto nonostante tutto, frutto di uno scontro o di un’interazione non sempre controllata, come una bruciatura, una collisione. La scelta dei materiali dipende dal loro grado di duttilità e dalla mia capacità di vederne le potenzialità. La carta, ad esempio, è un materiale che mi è molto familiare, può assumere aspetti e consistenze diverse. L’ho sempre avuta a disposizione, quindi molti dei miei lavori sono di carta.

Le tue sculture sono nella maggior parte dei casi di dimensioni contenute.
Non ho mai ragionato al mio lavoro in questo senso. Sicuramente il fatto di aver sempre lavorato in un ambiente domestico è determinante.

La bidimensionalità sembra prevalere sulla tridimensionalità.
Il bidimensionale e il tridimensionale sono ambigui: ad esempio, la superficie di un muro è considerata bidimensionale, eppure ha un suo spessore, peso, volume… a volte mi piace restare in bilico fra le due cose.

Parti dalla constatazione che “niente è veramente conoscibile”. Come dare forma all’incommensurabile, senza ricorrere a formule matematiche, leggi scientifiche o teorie filosofiche?
Ciò che non è misurabile per me è accattivante proprio perché non lo riesco a inquadrare, e diventa una suggestione, un pretesto per una ricerca.

Alcune tue opere sembrano vere e proprie mappe di territori (terrestri e celesti) inesistenti, o forse ancora da scoprire.  Alcune ricordano dei fossili. Qual è l’origine di quelle mappe e di quelle forme apparentemente primordiali?
L’origine è spesso frutto di spostamenti e suggestioni che si creano fra un’idea, un materiale e uno spazio. Inoltre, le parole ‘mappe’ e ‘territori’ includono già l’idea di uno spostamento, d’incontro/scontro e quindi anche d’imprevisto. Sono tutti meccanismi che mi affascinano.

Valentina Dotti, Risma, 2011, carta, dimensioni variabili, fra i 60 cm e 120 cm.

Valentina Dotti, Risma, 2011, carta, dimensioni variabili, fra i 60 cm e 120 cm.

Intervieni con trasferibili su foto ritrovate. Persino nel tuo autoritratto occulti il volto con una struttura composta di solidi geometrici che nel titolo chiami “cielo di pietra”. Che valore ha per te la simbologia?
Molto spesso le scelte che faccio sono più di pancia che di testa. La simbologia a volte si auto-genera all’interno delle dinamiche di un lavoro, e può essere un’ulteriore lettura.

Grazie al programma Erasmus hai trascorso un periodo in un piccolo paese francese. Ed è a Parigi che da un anno e mezzo hai deciso di stabilirti. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta?
Per citare i Monty Python, il desiderio di “qualcosa di completamente diverso”.

Quanto il contesto in cui vivi ora sta influenzando o potrebbe influenzare lo sviluppo futuro del tuo lavoro?
Tantissimo. Trovarmi immersa in un ambiente così diverso in tutto, dai ritmi agli spazi agli incontri, ha fatto nascere altre forme d’indagine che altrimenti non avrei affrontato.

Com’è nata l’immagine inedita per la copertina di Artribune Magazine numero 18?
Osservando il camino di casa che, essendo inutilizzabile, è diventato una libreria.

Daniele Perra

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18

 

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Daniele Perra

Daniele Perra

Daniele Perra è giornalista, critico, curatore e consulente strategico per la comunicazione. Collabora con "ICON DESIGN", “GQ Italia”, “ULISSE, "SOLAR" ed è docente allo IED di Milano. È stato fondatore e condirettore di “unFLOP paper” e collaboratore di numerose testate…

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