Sì all’estensione del concetto di cultura ma con discernimento e con selezione
In un mondo in cui tutto fa cultura, è ovvio che un Ministero “povero” come quello che la dovrebbe amministrare fatichi a finanziare tutti i progetti nei diversi ambiti di competenza. È quindi necessario selezionare i progetti in base al reale miglioramento che possono recare al Paese
Il motivo per cui non esiste una definizione puntuale di cultura nel nostro codice civile è che non è un oggetto specifico, cambia col tempo e a seconda del contesto. La visione adottata dalla Costituzione è dunque lungimirante perché sancisce il ruolo della cultura senza chiuderne il perimetro.
La definizione aperta di cultura come tutela della sua libertà e indipendenza
Alla luce di questa condizione mutevole, sorta dall’esigenza di mantenere la cultura indipendente da qualsivoglia assolutismo dogmatico, è essenziale comprendere che si tratta di una scelta adottata secondo una prospettiva secolare, che contempla il cambiamento delle visioni per evitare che un potere statale possa incidere nella definizione di patrimonio, bene o servizio culturale. Se non c’è una definizione di cultura, allora nessuno può modificarla per renderla legalmente vicina ai propri interessi.
La consapevolezza che negli anni la nostra visione di cultura possa cambiare, però, non deve indurci all’ignavia o al credo spontaneistico, o ancor più ad una sorta di animismo che sostituisca la cultura all’anima come presenza universale. Bradbury, nel suo Fahrenheit 451, e Truffaut, che ne ha fatto un film indimenticabile, proponeva un’idea di cultura puntuale, fortemente intrisa di politica. Una cultura come resistenza a un mondo senza memoria e senza passato, sempre distratto. E non stiamo parlando di tempi remoti, l’idea che la cultura avesse degli andamenti variabili era già pienamente compresa. Eppure, ciò non ha proibito all’autore di sviluppare un’opera che fosse pienamente del proprio tempo.
L’estensione del concetto di “cultura” ha provocato una stasi istituzionale
Oggi che tendiamo naturalmente all’asintoto, abbiamo compreso che tutto può essere cultura, lasciando emergere il sospetto che la cultura possa essere tutto. Un sospetto che si scontra miseramente con l’incapacità di trasformare il potenziale in potenza che, invece, sfocia nell’ignavia, dapprima individuale, come pigrizia intellettuale di scegliere cosa sia cultura perché schiacciati dall’enormità del tutto; e collettiva, sino a toccare istituzioni ove la pigrizia diventa incapacità politica di gestire le pressioni democratiche e da cui derivano una serie di interventi che scontentano tutti. Adottando le esigenze primarie della nostra economia come alibi pragmatico irriducibile, si riduce qualcosina, si lima qualcos’altro, ma poi si infondono speranze, finanziamenti a pioggia, e così via.
Le difficoltà oggettive del Ministero della Cultura
Non è possibile del resto fare altro: se tutto è cultura, come può uno dei ministeri più poveri del nostro Paese sostenere il peso di questo fardello?
Non possiamo pretendere che, con le risorse a disposizione, il Ministero possa realmente far fiorire, contemporaneamente: archeologia, patrimonio museale, borghi, paesaggio, centri storici, periferie, arte contemporanea, design, archivi, per non parlare di biblioteche, teatri, cinema, arti performative, produzioni e così via… fino al turismo, alla comunicazione.
Provare a definire un’idea di cultura per dare un contributo concreto alla società
Possiamo però definire un’idea di cultura che, in linea con la società, prevede una cooperazione reale e concreta tra pubblico e privato, dove per privato non c’è solo l’imprenditoria ma anche i singoli cittadini. Possiamo definire una linea di base, a partire dal fatto che oggi la cultura deve protendersi verso i cittadini, perché dopo decenni di austerità sacrale in cui è aumentata la distanza, ora è necessario che la cultura si riappropri di uno spazio vitale, uscendo dal biancore asfittico delle gallerie, dalla forzata eleganza dei Musei, dalle volgarità della mondanità, dal tecnicismo erudito, amministrativo e tecnologico.
Non possiamo pretendere che sia solo il settore pubblico ad agire il cambiamento. È necessario che tutti gli attori coinvolti partecipino a questa dimensione. Ben venga dunque che la cultura entri in ospedali, scuole, poste. Ben venga che si riappropri di bar, spazi aperti, locali. Ben venga che l’arte invada tutto ciò che può, con i mezzi che può. Ma è necessario che avvenga secondo una logica condivisa, non come azioni fine a se stesse. Creiamo dei percorsi condivisi trovando dei programmi di finanziamento sostenibili. Chiaramente operando una scelta – perché non si può finanziare tutto – volta al miglioramento concreto del Paese. Insomma, crediamo nel sogno, ma senza dimenticare di alzarci poi dal letto.
Stefano Monti
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