“Dare alla Palestina il padiglione israeliano della Biennale? Sarebbe colonialismo”
In un articolo del 7 ottobre su Artribune, Pino Boresta proponeva di assegnare il padiglione israeliano della Biennale di Venezia alla Palestina. Pubblichiamo la risposta dell’architetto David Palterer, secondo cui sarebbe solo apparentemente un gesto di generosità e potrebbe essere considerata allo stesso modo offensiva da entrambe le parti

La guerra di Gaza ha portato in primo piano un conflitto che non è solo politico ma anche culturale, iniziato con il crollo dell’Impero Ottomano e la sua implosione, con gli accordi conosciuti come Sykes-Picot, e il colonialismo inflitto dalla Francia e dal Regno Britannico ai territori divenuti un loro protettorato. Nel 1946 gli inglesi hanno istituito, in parte della Palestina, il Regno Hascemita, interpretando il protettorato come un’imposizione economica, amministrativa e culturale.
La storia dell’autodeterminazione di Israele
Il “risorgimento ebraico” nasce nel 1897 seguendo quello degli stati europei, non ultimo quello italiano, ed è conosciuto come Movimento Sionista. Dopo un percorso sofferto per individuare dove “stabilire” il rinnovato stato, esigenza divenuta impellente per i ripetuti pogrom verso gli ebrei nei territori tra Polonia, Ucraina e Russia, dove vi fu la maggior presenza di ebrei, ma anche in alcuni paesi musulmani come Iraq, Libia Marocco, la scelta naturale condivisa fu lo stesso territorio da dove erano stati esiliati quasi duemila anni prima e dove, comunque, una minoranza esigua di ebrei continuava a vivere con altre comunità, nessuna delle quali, singolarmente o insieme, è stata però in grado di esprimere una qualsiasi identità nazionale. Il percorso complesso di autodeterminazione dell’insediamento ebraico in Palestina fu caratterizzato quindi da relazioni talvolta consensuali e da altre di conflittualità, come era naturale in un incontro tra realtà diverse.
La nascita del Padiglione Israele alla Biennale di Venezia
Il padiglione israeliano, realizzato nel 1952, segue una tendenza architettonica che ha trovato a Tel Aviv la sua massima espressione. La città è infatti una new town con la concentrazione più ampia al mondo dello stile Moderno/Internazionale, che vede oltre quattromila edifici censiti, per i quali le è valso il riconoscimento del sito UNESCO (a riguardo si veda anche il saggio “Il Bauhaus in fuga, Ha Ir Ha Levanah La città bianca di Tel Aviv” nel volume Design Espanso, Metilene Editore, Pistoia 2025). L’architetto del Padiglione, Zeev Rechter, nasce nel 1899 in Ucraina dove ha iniziato i suoi studi al Politecnico de Nikolyev presso Odessa, per poi trasferirsi in Palestina nel 1919. Nel 1927 completa i suoi studi a Roma, in seguito si specializza a Parigi, dove ne assimila le tendenze architettoniche, tra le quali quelle di Le Corbusier. Tornato poi a Tel Aviv, è tra i promotori, insieme all’ingegnere capo della città, Yaakov Ben Sirah, e Arie Sharon che ha studiato al Bauhaus, dello stile moderno nella città, motivo per cui gli è stato commissionato il progetto.
Il Padiglione Israele è un monumento all’autodeterminazione
Nel 1976, con la curatela di Amnon Barzel, l’edificio ha ospitato Dani Karavan con la mostra centrata sul tema “Gerusalemme City of Peace”, un lavoro oggi parte della Fondazione Giuliano Gori. Questo evento, insieme al “gregge di pecore” di Menashe Kadishman del 1978, sono stati dei momenti salienti nella “vita” del padiglione. Si tratta quindi di un monumento della/alla autodeterminazione politica e culturale del “nuovo ebreo”, libero dalla “subordinanza” che ha determinato duemila anni di diaspora, mentre per i palestinesi rappresenterebbe un emblema per la loro nakba, e la mancata occasione per la propria autodeterminazione. Per gli israeliani ha significato essere “nazione tra le nazioni”, mentre per i palestinesi sarebbe un atto di colonialismo, anche e prevalentemente culturale, perciò qualsiasi intervento all’interno del padiglione non potrebbe essere considerato né dagli uni né dagli altri un’azione verso l’auspicata e necessaria tolleranza, bensì il suo opposto! “”Pace è una parola vuota in mancanza di tolleranza, di un dialogo, e purtroppo la cultura oggi si schiera in modo da accrescere il solco tra i belligeranti, come lo sarebbe la proposta di Pino Boresta.
David Palterer
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati