Dissenso? Sì, ma costruttivo. Ecco perché servirebbe un cambiamento culturale 

Il nostro mondo ha bisogno di nuove forme di dissenso, per fare in modo che da sterile azione di protesta si trasformi in uno strumento di democrazia attiva, volto a produrre cambiamenti costruttivi che possano effettivamente contribuire alla crescita della società

La notizia che MUBI distribuirà il nuovo film di Sorrentino ha rinverdito alcune posizioni che da tempo puntano l’attenzione sul fatto che la piattaforma di streaming vanti tra i propri investitori il fondo Sequoia Capital e che tra le società finanziate da tale fondo compaia una società israeliana attiva nella produzione di armi e di sistemi di sicurezza. 
Notizia che ha sollevato qualche remora, tanto che alcuni hanno proposto di boicottare la visione del film e, più in generale, la sottoscrizione alla piattaforma di streaming. Si tratta di azioni perfettamente democratiche ma che, in un mondo così profondamente segnato dalle interconnessioni dei capitali, rischiano di ottenere esclusivamente un effetto comunicativo e per nulla strutturale. 
Allo stesso modo, per quanto l’iniziativa intrapresa da molti natanti di raggiungere Gaza per fornire aiuti umanitari sia senza dubbio lodevole sotto il profilo democratico, rischia comunque di ottenere soltanto un risultato anche qui comunicativo. 

La possibilità di manifestare il proprio dissenso: una conquista della modernità 

Sia chiaro: la possibilità di esprimere le proprie opinioni, e la facoltà di sviluppare autonomamente il proprio pensiero sono i diritti e le conquiste più importanti dell’era moderna, e sono quelle che hanno maggiormente plasmato il nostro sistema di valori anche nei molteplici casi in cui tali diritti non sono ancora stati pienamente raggiunti. 
Le riflessioni qui contenute non ambiscono dunque a licenziare in modo superficiale le forme del dissenso, né intendono limitarsi alla mera constatazione che ogni forma di dissenso sinora perseguita ha avuto effetti limitati sul piano internazionale. 

Il dissenso: facoltà ancora giovane nella nostra civiltà 

Si tratta piuttosto di cercare di interpretare il dissenso come una facoltà sociale e collettiva ancora giovane per la nostra civiltà; germinata storicamente all’interno di quelle correnti di pensiero e di azione che hanno percorso l’intervallo che ha accompagnato il nostro occidente dallo Stato Assoluto alla Dichiarazione Universale dei Diritti del 1789, per poi proseguire, con alti e bassi, a macchia di leopardo, fino ai giorni nostri, divenendo finalmente parte integrante di ogni sistema di regole su cui oggi si basa la nostra collettività: dalla Costituzione ai regolamenti di condominio. 
Questo tipo di processo ha portato ad una sostanziale istituzionalizzazione del dissenso, e se da un lato la tutela di questa facoltà ha permesso e permette ai singoli di esprimersi, è pur vero che le forme del dissenso hanno perso, nel tempo, quella capacità di introdurre all’interno di un sistema strutturato nuove forme di sensibilità. 
In un numero speciale di Questione Giustizia dedicato al dissenso, Andrea Natale, riconosce quanto, al di là della libertà individuale, “sul piano dell’architettura costituzionale e istituzionale, si registra ogni giorno la tendenza ad accentrare nelle mani di pochi (l’amministratore delegato, il segretario di partito, il premier, sempre più capo del governo) i percorsi decisionali”. Percorsi che poi, sotto il profilo democratico, hanno condotto ad un sempre maggiore utilizzo dello strumento del decreto-legge (passati dai 20 del Governo Gentiloni agli ormai più di 100 del Governo Meloni), che per propria costruzione limita la discussione e quindi l’espressione del dissenso anche ai più alti vertici della vita civile e democratica. 

Quando la crescita del dissenso individuale rischia di penalizzare la partecipazione collettiva 

In questo contesto, mentre la partecipazione attiva da parte dei cittadini diviene sempre più rara, l’attivismo digitale, le proteste sui social, le proposte di referendum, o le petizioni online sono divenute sempre più frequenti, ma con un margine di incisività decisamente basso e a carattere sempre puntuale. Secondo quanto riportato da Pagella Politica, dall’avvio della legislatura al 19 dicembre 2024, le petizioni online erano quasi arrivate a duemila, e meno del 2% delle stesse era stato preso in considerazione dalla Camera o dal Senato. 
Sullo sfondo, un quadro geopolitico globale che negli ultimi anni ha raccolto numerose proteste da parte di differenti categorie di cittadini in praticamente ogni continente del globo: da Hong Kong al Cile, dagli agricoltori in India al movimento Black Lives Matter. Alcune di queste hanno ottenuto risultati, ma tutte hanno mostrato segnali di violenza. 

Il dissenso: inclusivo ma non sempre positivo per il sistema democratico 

Inquadrando dunque il tema in una prospettiva pluridecennale, è lecito affermare che le ultime evoluzioni del dissenso hanno condotto ad una prima inclusione all’interno del sistema democratico (ove presente), ma che tale inclusione ha valore concretamente antagonistico, condizione che conduce ad una minore partecipazione alle scelte “positive” (come la partecipazione alle urne, scesa dal 93,4% registrata nel 1976 al 63,8% del 2022), e a manifestarsi attraverso azioni di protesta, in alcuni casi pacifici, come gli scioperi regolari, strumento che, i dati CGS (Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero) mostrano sempre più utilizzato (soprattutto nel decennio 2010-2020, in cui sono stati proclamati tra i 5 e i 6 scioperi al giorno); in altri invece più diffusi e meno organizzati, che sfociano in conflitti con le autorità, o che invece si concentrano sul digitale. Differenti sono invece le azioni internazionali, come la Global Sumud Flotilla, tuttora in corso e per la quale è piuttosto arduo prevedere un esito specifico, ma che comunque si muovono come azione antagonistica e in ogni caso extraistituzionale. 

Un cambiamento culturale necessario per rendere il dissenso costruttivo 

È naturale dunque interrogarsi su quale cambiamento culturale sia oggi necessario per favorire un ruolo più costruttivo e istituzionale del dissenso, introducendo dunque elementi di confronto che aiutino anche a comprendere quanto le decisioni assunte dal Governo o dagli altri organi istituzionali rispettino il volere della popolazione. 
Pur trattandosi di un quesito che non ammette una risposta univoca, è senza dubbio fondamentale, in questo processo, tener conto delle nuove tecnologie, così come delle produzioni culturali, in grado di recepire, e talvolta anticipare, il malcontento delle persone, evitandone spettacolarizzazioni ed estremismi. Circostanziare il dissenso, organizzandolo a tutti i livelli amministrativi, consentirebbe di raccogliere proposte costruttive, e fornire nuove forme di confronto tra amministratori, politici di professione e di partito, e cittadini, ridistribuendo la funzione oppositiva sulla cittadinanza, e ridefinendo quindi il ruolo dell’opposizione come forza politica che proponga soluzioni alternative a quelle promosse dai decisori politici in carica. 
Disperdere il malcontento, lasciando che si esprima in atti violenti casuali, o che invece si riduca ad azione comunicativa, o ancora a rancori da tastiera, significa misconoscere una delle più grandi intuizioni che la nostra società ha sviluppato nei secoli: la possibilità di esprimere un’opinione divergente come strumento per migliorare le strategie e le decisioni assunte dagli organi istituzionali, rendendole più vicine alle esigenze dei cittadini. 

Sì ad una riflessione sul dissenso per trasformarlo in un motore di crescita 

È chiaro che, anche in questo contesto, debba essere condotta un’azione di merito e di metodo, evitando populismi e scelte pusillanimi volte a cavalcare l’onda del malcontento per interessi partitici o individualistici. Ma è altrettanto chiaro che quel partito del non voto, come lo definiva Pagella politica al termine delle elezioni del 2022, e che in quella tornata elettorale avrebbe ottenuto circa il 40% delle adesioni, non può rappresentare l’unica forma di dissenso, perché anche soltanto concettualmente, si tratta di un dissenso che, ottenuto attraverso la democrazia, mina nel profondo i meccanismi e il funzionamento della democrazia stessa, lasciando che pochi scelgano per molti. Anche alle elezioni. 
Non potendo le forze politiche realmente riflettere su questo meccanismo, è opportuno lo facciano altri attori sociali, che non presentino un così netto conflitto di interesse e che possano sviluppare delle idee in grado di fornire continuità evolutiva a un diritto che è alle basi del nostro modo di concepire il mondo, dai rapporti umani personali, fino alle grandi scelte globali. 

Stefano Monti 

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Stefano Monti

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Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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