Ripristinare i cicli della vita. In risposta all’artista Gian Maria Tosatti

È tutta colpa di ingombranti genitori se la generazione dei 30-40enni non trova spazio? O non sarà mica che un po' se lo sono voluto, e che ora stanno comportandosi nello stesso modo? Santa Nastro invita alla riflessione e a un pensiero generativo.

Il 22 giugno 2020 il magazine online OperaViva ha pubblicato un articolo dell’artista Gian Maria Tosatti che riflette sulla condizione della generazione di intellettuali che un tempo si sarebbe detto TQ (trenta-quaranta) e sul loro fallimento rispetto al tentativo di lasciare il segno e all’incapacità di uccidere i padri. Un pezzo onesto e umano che ha provocato ulteriori riflessioni e qualche obiezione in me, che come Tosatti sono nata nel 1981. Sto dunque anche io avvicinandomi progressivamente a quei quarant’anni, a quel mezzo del cammin di nostra vita che richiede un guardarsi indietro per capire che cosa c’è davanti. Che cosa è stata fino ad oggi la mia generazione? Tosatti dice che non siamo stati capaci di uccidere i padri. Il che è vero. Che la generazione precedente è composta da disfunzionali Dorian Gray che, pur di non invecchiare, spostano progressivamente l’asticella dell’età senile in avanti (e di conseguenza dell’età adulta per noi), il che per ciò che concerne quanto meno il lavoro culturale è spesso altrettanto vero.

MEA CULPA

Ma è anche vero che, se dobbiamo fare un’analisi e un mea culpa, lo dobbiamo fare fino in fondo. Perché ciò che ho visto da quando ho cominciato a muovere i primi passi in questo settore non è stata gente arrabbiata, non sono state persone che volevano tutto e lo volevano subito. Ho visto un grande desiderio di essere grandi, di essere amati, di essere famosi, e la promessa da parte “dei genitori” culturali che tutto questo sarebbe avvenuto, a patto di essere dei bravi bambini, di fare come dicevano loro. Mama’s gonna make all of your nightmares come true, Mama’s gonna put all of her fears into you, Mama’s gonna keep you right here under her wing, She won’t let you fly, but she might let you sing, Mama’s gonna keep baby cozy and warm, Ooh baby, ooh baby, ooh baby, Of course mama’s gonna help build the wall, cantavano i Pink Floyd (Mother, The Wall, 1979). E la nostra generazione è stata buona e si è fatta amare. Come si fa a uccidere i padri quando ci si si compiace e ci si crogiola nell’apparente benessere che ci hanno lasciato e creato intorno?

IL CASO CELANT

E nonostante tutto, il velo di Maya ancora non è caduto. Tosatti tira in ballo nel suo articolo Germano Celant. La scomparsa di Celant è stata certamente un evento terribile ed epocale. Se ne è andato un gigante della critica d’arte, il più grande, in un modo ancora più commovente, strappato alla vita da questo terribile virus che sta sconvolgendo il mondo e mettendo in crisi il nostro stile di vita di gente globale e viaggiatrice. Ogni omaggio è sacrosanto e forse ce ne sono stati anche troppo pochi. Ma non ho potuto fare a meno di sentire i brividi lungo la schiena quando ho letto sui social svariati post che invocavano la fine della storia dell’arte con Celant o di persone che si chiedevano che ne sarebbe stata dell’arte senza di lui o che semplicemente ponevano il quesito in che direzione andrà l’arte oggi? Ho tremato perché, se è vero che la direzione nell’arte la dava un gigante che però comunque aveva raggiunto l’età venerabile di 80 anni e senza di lui siamo una nave senza timone, allora vuol dire che abbiamo sbagliato tutto. Non solo i quarantenni, sia chiaro. Tutti.

Fondazione Prada. Germano Celant. Mostra Post Zang Tumb Tuuum. Photo Ugo Dalla Porta

Fondazione Prada. Germano Celant. Mostra Post Zang Tumb Tuuum. Photo Ugo Dalla Porta

DIVIDE ET IMPERA

Uno degli errori della generazione dei trenta quasi quarantenni è stato quello di viaggiare sempre da soli. Quando ho avuto l’occasione di ascoltare conferenze, testimonianze, di intervistare o semplicemente incontrare i protagonisti, ad esempio, dell’Arte Povera che Tosatti cita spesso nel suo articolo, sono rimasta colpita dallo spirito di fraternità e coesione che li animava, anche laddove spesso c’erano stati dissapori che la storia dell’arte ha tramandato, anche dopo la morte dell’uno o dell’altro. Senso di unione che affratellava artisti, critici, galleristi, tutti. Con questo non voglio dire che non ebbero scontri, né discussioni, né ancora problemi per denaro o altre delle cose che fanno litigare la gente. Ma c’era qualcosa di forte che li univa. E che ha superato qualsiasi evento. Non ho visto questo nella nostra generazione. Possiamo dire che i nostri “padri” hanno adottato l’antico metodo del divide et impera? Possiamo dirlo. Ma un certo grado di complicità da parte nostra c’è senz’altro stato. Troppa protezione genera solitudini, cinismo, diffidenza: ad alcuni sembra “resistenza”, ma assomiglia di più ad assuefazione e rassegnazione.

DIVENTARE GENITORI

Allora forse che cosa possiamo fare? Senz’altro non è ancora tempo di “appendere le scarpe al chiodo” e farsi da parte. Forse è diventato il momento di mettere al centro un pensiero femminile e generativo, di diventare noi padri e madri, di bambini, di opere, di pensieri maturi e di costruire il presente.

Tremo quando vedo i nostri coetanei fare lo stesso errore di chi ci ha anticipato, delegittimando e ridicolizzando i più giovani.

È un punto di arrivo un po’ tardivo, ma per una generazione edipica come la definisce Tosatti, liberarsi dalle maglie dell’esser figli è stato ancor più complesso e genitori che non vogliono invecchiare non possono certo concepire l’idea di essere chiamati nonni. Ma, nella vita come nell’arte, per emanciparsi dalla propria storia di origine bisogna ripristinare i cicli della natura. Dare vita è qualcosa di bellissimo e profondamente giusto. Riprenderci il ruolo, cui le generazioni precedenti hanno parzialmente abdicato, di coloro che trasmettono esperienza e sapere, è costruzione. Tremo quando vedo i nostri coetanei fare lo stesso errore di chi ci ha anticipato, delegittimando e ridicolizzando i più giovani, cercando di demolire in loro qualsiasi sicurezza e indipendenza, minimizzando sugli oggetti culturali che piacciono loro in virtù dei good old days. Insegniamo loro a stare insieme, a fare gruppo. A prendersi rischi. Diciamo loro che il mondo è un posto duro e bellissimo. Che la storia a volte crea dei cortocircuiti tali da fare breccia nel muro dell’omologazione e della inanità. A non rimuovere la complessità. Poi sicuramente “ammazzeranno” anche noi, ma almeno avremo risistemato le cose e la terra sarà di nuovo fertile e coltivabile.

– Santa Nastro

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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