L’ombra della Convenzione di Faro

La ratifica della Convenzione di Faro ha suscitato grande entusiasmo. Ma siamo sicuri che non ci siano aspetti da approfondire maggiormente? Le riflessioni di Stefano Monti.

Sui pannelli pubblicitari della Feltrinelli nella Stazione di Milano, un poster a tutta immagine di Daniele Luttazzi recita più o meno così: “Se in un giorno non senti nemmeno una cosa che ti offende, vuol dire che non vivi in una democrazia”. È una frase che dovremmo ricordare tutti, perché ci ricorda che spesso tendiamo a rimanere nelle nostre zone di comfort e non guardare le ragioni di chi la pensa differentemente da noi.
Ne è un esempio lampante la grande ondata di ottimismo che ha accompagnato la ratifica della Convenzione di Faro. Di fronte a tale coro unanime di plausi, è lecito chiedersi se ci sia qualche aspetto che non è ancora stato sufficientemente approfondito. Eppure, la ratifica di Faro pone così tanti quesiti che appare innaturale nessuno abbia avanzato delle riflessioni differenti. Più nel dettaglio, i dubbi e le perplessità sulla Convenzione di Faro dovrebbero suggerire riflessioni relative ad almeno due “ordini di grandezza”: da un lato la “macro-dimensione”, il contesto strategico di riferimento, e dall’altro “la micro-dimensione”, vale a dire la realtà concreta e piccola di tutti i giorni. Partiamo dalla prima.
Il nostro Paese rappresenta una delle più importanti nazioni al mondo in merito a detenzione e conservazione di patrimonio culturale. Così, mentre tutti gli altri ranking internazionali vedono il nostro Paese verso un declino di cui pare nessuno si curi, resta ancora sul podio per quanto riguarda l’attrattività legata alla cultura.

IL COUNTRY BRANDING

I più importanti studi relativi al “country branding”, ossia quegli studi che analizzano come un Paese si “posiziona” nell’immaginario mondiale, mostrano che, nel mondo, l’Italia è ancora sinonimo di bellezza, di genio, di “classe”.  Il posizionamento di brand è un fattore estremamente importante in un’economia “fluida” come la nostra: esso ha impatti positivi sia a livello macro-economico che nella vita di chi, andando all’estero, si è sentito almeno una volta lusingato perché, in qualità di italiano, è stato associato a uno degli stereotipi positivi che ci contraddistinguono. Ad esempio, questo posizionamento di brand fa sì che le persone continuino a vedere l’Italia come un Paese di riferimento, anche se gli indici relativi all’affidabilità politica, alle condizioni economiche, sociali e formative non dovrebbero generare così tanta stima. Tutto ciò, si badi bene, non è scolpito nella roccia. Paesi in via di sviluppo, o già sviluppati, hanno attivato già da tempo strategie di governo che mirano a migliorare il proprio riposizionamento strategico legato a “reputation” e a cultura, mentre l’Italia, al riguardo, è ancora molto debole e frammentaria.
Le risorse economiche a disposizione del nostro Paese riescono, con estrema difficoltà, a garantire una corretta protezione e conservazione del nostro patrimonio culturale, con conseguente “freno” alle dimensioni della valorizzazione (se vogliamo ancora tenere in piedi questa antica quanto inutile dicotomia). Il privato ha più volte cercato di “sopperire” a questa mancanza di risorse, ma reticenze ideologiche del settore pubblico (che nessuno vuole ammettere esistano), e l’incapacità, da una parte e dall’altra, di intessere un dialogo costruttivo hanno spesso impedito la creazione di modelli virtuosi.

La cultura non è un “mercato”. Ma ne siamo davvero così convinti?

In questa condizione, si sono recentemente introdotte due dimensioni “internazionali”: l’affermazione del valore culturale immateriale e la definizione di eredità culturale.
Queste due dimensioni, che hanno entrambe raccolto un grande successo da parte degli operatori culturali, estendono notevolmente il concetto di “patrimonio culturale”, ma questa “estensione” non necessariamente è un fattore positivo per il nostro Paese. Se immaginassimo per un momento la cultura come un “mercato”, allora potremmo affermare che tutta questa “estensione” del patrimonio culturale può essere interpretata come un’eliminazione di “barriere all’entrata”, vale a dire operazioni che consentono ad altri operatori di inserirsi nel mercato. In una condizione del genere, l’Italia, da leader del settore, non dovrebbe avere alcun interesse a estendere il mercato.
Certo, la cultura non è un “mercato”, si obietterà. Ma ne siamo davvero così convinti? Di seguito c’è una tabella, realizzata l’anno scorso e quindi passibile di aggiornamento, che sintetizza i flussi di finanziamenti internazionali per il capitale culturale immateriale. Certo, non stiamo parlando di miliardi, ma l’assenza di qualsivoglia presenza del nostro Paese dovrebbe far comunque riflettere. E dovrebbe far riflettere non tanto per la sua dimensione “monetaria”, quanto piuttosto per la dimensione “di posizionamento”. Tale posizionamento ci è stato sinora riconosciuto di diritto, ma l’apertura delle barriere all’entrata deve imporre un cambio di marcia sostanziale per poterlo difendere.
Se dal punto di vista strategico, quindi, queste grandi introduzioni non sembrano proporre grandi benefici per il nostro Paese, dal punto di vista “micro”, gli elementi di incertezza non sono da meno. Già, perché ci sono almeno quattro punti di criticità potenziali che la Convenzione di Faro potrebbe sollevare. Il primo è un elemento concreto e immediato: chi gestirà la “convenzione”? Gli stessi enti e le stesse persone che oggi si trovano a governare il nostro patrimonio culturale, vale a dire le stesse strutture che sinora hanno mostrato una reticenza ideologica all’ingresso dei privati. Ma pur ammettendo che, per effetto della Convenzione, l’atteggiamento di questi enti possa conoscere una rivoluzione copernicana, il secondo punto di perplessità è “sulla base di quali criteri” verranno gestiti? La convenzione non fa riferimento a criteri selettivi, e questo lascia, in assenza di regolamenti, ampi margini di opacità. Sulla base di queste “incertezze” si staglia imponente la previsione che, con la ratifica, ciascun membro si impegna a “mettere in luce il valore dell’eredità culturale attraverso la sua identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione e a favorire un clima economico e sociale che sostenga la partecipazione alle attività inerenti l’eredità culturale.”

Flussi di finanziamenti internazionali per il capitale culturale immateriale

Flussi di finanziamenti internazionali per il capitale culturale immateriale

LE RAGIONI DELL’ENTUSIASMO

Qui, probabilmente, risiede il grande entusiasmo degli operatori culturali e delle accademie, che potranno disporre di nuove forme di finanziamento per condurre queste attività. Le perplessità sono tuttavia correlate alle “coperture finanziarie” di un’operazione di questo tipo e ai criteri di “assegnazione” di questi “incarichi”.
Riassumendo, negli ultimi quindici anni, a livello internazionale, il riconoscimento di nuove forme di “cultura” sta ponendo le basi per una “competizione” per il posizionamento internazionale. Competizione per la quale il nostro Paese non ha ancora avviato alcun tipo di strategia. Sul versante micro, una ratifica di una convenzione così “ampia” non fornisce alcun chiarimento su come verranno gestiti i fondi, da chi verranno gestiti, né sulla base di quali criteri. Gli unici motivi per cui bisognerebbe gioire di queste introduzioni è che possono stimolare il nostro Paese a essere più competitivo, creare una strategia di posizionamento e regolamentare la Convenzione di Faro in modo che essa possa rappresentare un elemento di svolta epocale nella gestione dei beni culturali del nostro Paese.
Se ci fossero tali condizioni, tuttavia, il nostro sarebbe già un Paese diverso. Senza bisogno di Faro.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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