Come cambiano, per forza, le fiere d’arte

Mentre la nuova edizione di miart scalda i motori a Milano, è d’obbligo una riflessione sui cambiamenti che le fiere stanno affrontando nell’epoca post pandemica. Puntando sulla produzione e non basando tutto sui risvolti economici

C’è un gran movimento tra le fiere. E i movimenti sono sempre un gran bene. Le fiere, non solo quelle d’arte ma tutte, di ogni categoria merceologica, già soffrivano parecchio. Il distanziamento anti-Covid, i lockdown e le altre misure governative che hanno chiuso gli eventi con assembramento sono stati la mannaia finale. Ma dalle ceneri nascono le idee, ci si ripensa, si trovano nuove forme. Semplicemente perché vale la regola aurea che, nel problema e nel dolore, si ritrova la via.
Esporre in carrellata beni e servizi, fisiologicamente omogeneizzando; centinaia di produttori che in pochi giorni e con sforzi immani (sia economici che fisici) cercano di captare clienti, posizionarsi sui curiosi, vendere qualcosa: era tutto oltremodo obsoleto. Il digitale ha cambiato le regole della comunicazione e del commercio, in maniera irreversibile. Sebbene il contatto umano, ancor più in qualsiasi pratica commerciale, sia indispensabile, quanto meno nel procacciamento è velleitario. La capacità di fuoco dei canali digitali di selezionare e intercettare è ineguagliabile. Se associata al costo per contatto, è spaventosa. Forse inimmaginabile venti o trent’anni fa. Mentre le fiere sono nate nella notte dei tempi. Appartengono all’era pre-cristiana addirittura, ma molte sono rimaste lì come format. Sono un grande momento mercantile che oggigiorno, nella sua essenza, spesso ha perso efficacia. Tante infatti sono state chiuse, anche brand importanti e in location prestigiose, non per motivi endogeni bensì esogeni. Non c’è più domanda per quel tipo di fiere, per il loro modello classico espositivo, diciamo.

miart 2022 ph irene fanizza

miart 2022, photo Irene Fanizza

LA FIERA COME CENTRO CULTURALE

L’arte ha le sue peculiarità, naturalmente. Alle fiere si vende infatti ancora molto bene, per i galleristi sono il momento clou per incontrare i clienti. Sono tappe di percorsi “consulenziali” tra collezionista e gallerista indispensabili e non sostituibili. Ma per l’economia della fiera non basta. Le fiere d’arte comunque sono tante. I costi logistici per un espositore esponenzialmente elevati, i ricavi ottenibili, seppur come detto significativi, magari non sufficienti (o vanificati dai costi della fiera) e quindi si mette in discussione la partecipazione (“magari vendo ugualmente altrove”).

“La capacità di fuoco dei canali digitali di selezionare e intercettare è ineguagliabile. Se associata al costo per contatto, è spaventosa

Allora le fiere, per essere appetibili, distintive rispetto ad altre e per giustificare i prezzi per esporre, offrono nuovi servizi. La produzione è quella sempre più in voga e interessante. La si sta seguendo in tre modalità: avere degli sponsor per dei premi, alle gallerie o agli artisti, invitandoli quindi a fare di quella fiera un momento unico e distintivo; creare delle sezioni sperimentali, tematiche, dove si invitano i mercanti a selezionare i propri artisti o comunque a creare una narrazione specifica per l’evento; oppure offrire delle residenze per far produrre artisti e portarli in fiera. L’aspetto peculiare è quindi che, sempre di più, la fiera diventa centro culturale. Il tratto mercantile diventa il punto di arrivo di un processo e non più un presupposto. La fiera in quanto contenitore è verticale (dall’ideazione alla produzione e al consumo) e non più orizzontale (mercato di incontro tra offerta e domanda).

Fabio Severino

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #70

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Fabio Severino

Fabio Severino

Fabio Severino, MBA e PhD in marketing, è economista e sociologo. Esperto di cultura e turismo, già ceo di impresa, docente a La Sapienza di Roma e visiting a Londra, Barcellona e Lione, consulente di Onu e ministeri, è autore…

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