Il management culturale (che non c’è)

Chi sono i manager culturali? Ed esiste un corso di studi che consenta ai giovani di formarsi in questo settore? Le riflessioni di Stefano Monti.

Si parla tanto di management della cultura, anche se poi, i manager (quelli veri) nella cultura non ci sono. Non si tratta di una riflessione sterile. Se vogliamo davvero che la cultura assuma connotazioni sempre più manageriali, dobbiamo iniziare a considerare quantomeno:
le caratteristiche che un manager culturale dovrebbe avere;
verificare che tali caratteristiche siano coerenti con i corsi di laurea attualmente esistenti;
iniziare a considerare la categoria del manager culturale anche nei concorsi e nei bandi.
Si tratta insomma di una visione di medio periodo che non può non essere intrapresa. Altrimenti ci troveremo sempre ad avere archeologi, architetti e conservatori a fare i manager. Non è detto che sia sbagliato. Ma è necessario definire l’indirizzo che la cultura deve avere in futuro e agire sulla base di una strategia. Anche rischiando di scontentare qualcuno.
Il concetto di manager culturale è stato ampiamente dibattuto nel nostro recente passato. Sono stati fatti passi avanti, in questo senso, e lo stesso MiBACT (allora MiBAC) ha dichiarato di voler inserire all’interno dei bandi pubblici tale qualifica. Il problema è che poi, a ben vedere, non è che sia cambiato molto. Anzi. L’unica cosa che è realmente cambiata è che le circolari di nomina del ministero hanno iniziato a dare questa nuova qualifica a persone che sarebbero state scelte anche senza che questa qualifica esistesse.
Guardiamo al super-bando dei super-manager (che è quello che più di tutti avrebbe dovuto avere una forte declinazione in questo senso). Chi ha vinto quel concorso? Secondo il ministero, i vincitori sono stati: 14 storici dell’arte, 4 archeologi, 1 museologo/manager culturale e 1 manager culturale.
Peccato che di manager culturali, invece, non ce ne sia stato nessuno. Procediamo con ordine: le due persone che rivestono in toto o in parte quel ruolo secondo il ministero sono, rispettivamente, James Bradburne e Mauro Felicori. Senza nulla togliere alla loro competenza e ai risultati che sono stati in grado di apportare, né l’uno né l’altro ha un corso di formazione specifico in management culturale, e né l’uno né l’altro, soprattutto, si dichiara tale.

Cosa è necessario fare perché una persona possa essere dichiarata manager culturale? È necessario che abbia ricoperto incarichi dirigenziali nel settore culturale? Ma se è così, come si accede a tali incarichi?”.

A rendere tali candidati dei manager culturali è, per il ministero, la constatazione che entrambi avessero ricoperto, nel passato, un ruolo dirigenziale all’interno di un servizio o di un settore culturale. Bradburne come direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi e di altre strutture culturali internazionali, Felicori come Capo Dipartimento Economia e Promozione della Città di Bologna con incarico ad interim Settore Marketing Urbano e Turismo. Beninteso: nulla da eccepire sul curriculum di questi due professionisti, che non è oggetto di questa riflessione, ma Felicori è laureato in filosofia e Bradburne si dichiara, nel proprio curriculum, come un “indipendent consultant and exhibition specialist”.
Cosa è necessario fare perché una persona possa essere dichiarata manager culturale? È necessario che abbia ricoperto incarichi dirigenziali nel settore culturale? Ma se è così, come si accede a tali incarichi? La domanda non è così provocatoria: prendiamo il caso di un ragazzo o di una ragazza che a diciotto anni decide di rimanere in Italia e di iscriversi a un corso di studi per poter diventare un giorno un manager culturale. Che carriera devono intraprendere? Esistono corsi di studi in management culturale, è vero. E al manager culturale sono associate delle specifiche classi di laurea. Ma che succede se, come accade, per la formazione post-lauream in management culturale i requisiti non sono stringenti? E ancora, come si associano queste valutazioni con la constatazione che si diventa manager culturali solo dopo aver svolto incarichi “dirigenziali” (il che non traduce appieno il significato di manager) in organizzazioni culturali?

Delle due, allora, l’una: o facciamo in modo che per i manager culturali di domani ci sia un profilo da seguire, o eliminiamo definitivamente la concezione di manager culturale”.

Coerenza vuole che, per poter ricoprire un incarico pubblico in un settore culturale e/o affine, quale ad esempio il turismo, debba dunque essere necessario il riconoscimento del manager culturale, no? Se guardiamo però la platea di professionisti che ricoprono funzioni di questo tipo, capiamo che tale coerenza non è affatto rispettata, e non solo per quanto riguarda il lato politico (quanti assessori alla cultura nel nostro Paese sono manager culturali?) ma anche dal punto di vista tecnico. Basta guardare i bandi pubblici che sono usciti per ricoprire funzioni di questo tipo e valutare quali sono i requisiti di ammissione.
Delle due, allora, l’una: o facciamo in modo che per i manager culturali di domani ci sia un profilo da seguire, o eliminiamo definitivamente la concezione di manager culturale, evitando che famiglie e studenti versino “milaeuro” per la formazione di una figura professionale che si può raggiungere in altro modo. Perché dobbiamo capire che alle parole corrisponde un significato e, se non lo pretendiamo con fermezza, le nostre stesse parole non hanno valore.

Stefano Monti

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42

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Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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