Istituire un rifugio nella selva

Informazioni Evento

Luogo
TRAFFIC GALLERY
Via San Tomaso 92, Bergamo, Italia
Date
Dal al
Vernissage
03/03/2024

ore 16

Curatori
Riccardo Vailati, Giulia Mariachiara Galiano
Generi
arte contemporanea, collettiva
Loading…

Istituire un rifugio nella selva da il titolo ad una mostra che si propone di racchiudere l’etica di ogni singolo artista, incanalando le loro pratiche identitarie in una frase che incarni un monito di sopravvivenza, una densità esistenziale, attuabile nella messa in pratica d’un rapporto profondo e spirituale con sé stessi e con la purezza e le risorse dell’incontaminato.

Comunicato stampa

Istituire un rifugio nella selva da il titolo ad una mostra che si propone di racchiudere l’etica di ogni singolo artista, incanalando le loro pratiche identitarie in una frase che incarni un monito di sopravvivenza, una densità esistenziale, attuabile nella messa in pratica d’un rapporto profondo e spirituale con sé stessi e con la purezza e le risorse dell’incontaminato.

 

L’incontaminato è il primo snodo contenutistico condiviso nel quale gli artisti pongono l’accento sul rapporto tra la loro anima e la spontaneità delle proliferazioni naturali, intraprendendo discorsi sociali basandosi sulle trame comunicative di flore e faune, istituendo luoghi sacri ed utopici, edificando macchinari ed idoli che si scindono da ogni prevedibile catalogazione, e rievocano invece un’ancestralità plasmata da istinti profondamente umani e ferocemente animali. Si è perciò identificata nel termine “selva” una prima chiave comune in cui questi concetti fossero inscrivibili; questa parola si riferisce infatti ad un’area estesa di terreno occupato da associazioni vegetali di alberi spontanei, intesa anche come sinonimo di bosco, talora anche di foresta.

La sua apparizione letteraria più celebre è sicuramente quella dantesca, quando smarrita la via, ci ritrovammo in quella selva oscura, misteriosa, che celava bestie pericolose, ma rappresentava anche l’origine e l’utopia d’un viaggio incredibile. Il termine “selva” è inoltre utilizzato per indicare moltitudini di cose molto fitte o gruppi di persone molto numerosi, un’entità collettiva instabile, confusionaria, caotica (es. “...selva d’aste e di spade e di volanti dardi…”, Ariosto) ; ed infine, “selva” da nome ad un’ipotetica raccolta di appunti ed annotazioni, un libro di poesie di erudizioni varie, sempre in corso e non finito, in questo caso la parola viene spesso annessa al titolo (es. “Selve”, Poliziano – “Selve per le nozze”, Chiabrera).

 

In seconda analisi, un ulteriore elemento perno è quello della sopracitata istituzione di un luogo altro che nulla ha a che vedere con coordinate geografiche, ma con tragitti emotivi ed esperienziali, trame relazionali che ne hanno stimolato la proliferazione interattiva, che per affinità d’intenzione generativa titoliamo con la parola “rifugio”. Questo termine indica per definizione un area territoriale od emotiva che funge da riparo, difesa contro un pericolo materiale o morale: le insidie della selva misteriosa e fitta, le insidie della fiumana, della folla; lì, la necessità d’istituire un rifugio, tradotta nell’immagine d’un’ intenzione, viene suggellata nella proiezione del suo istituirsi ed evolversi. Questo ambiente dalle multiforme possibilità si manifesta in differenti approcci esistenziali: dopo essersi affermato, può offrirsi, essere offerto, essere colto o trovato, essere condensato e diffuso, espanso, impollinato di altri rifugi, può ammalarsi, rappresentare sia la salvezza che la dannazione, essere condiviso, conquistato, sofferto, gioito ed elevato. Un porto di rifugio dove approdare in sicurezza. Queste tane, prendono forma dalle sembianze dei loro costruttori e teorici; così queste strutture sveleranno le brecce d’accesso a mondi puri ed empatici.

 

Entrando sinteticamente nello specifico delle quattro casistiche degli artisti coinvolti: Nera Branca ha sviluppato un rapporto in cui la solitudine è colmata dallo spirito della montagna che vive come rifugio, condensato nei doni che essa stessa gli offre e che successivamente lui plasma in totem sacri e figure senzienti; Anna Marzuttini vive un rapporto con gli organismi naturali ed il loro sovrapporsi di piani volumetrici, valorizzando il dettaglio dell’azione proliferante e dando forma all’anima collettiva dell’incontaminato. Gabriele Longega[1] propone simboli ed entità che dilagano e contaminano in ambienti dove risuona un inneggio ad una comunanza dei corpi e dove riverbera lo stimolo alla condivisione, in una danza magica e silenziosa tra l’uomo e la natura; Stefano Ferrari edifica macchinari che attraversano e demistificano la membrana distintiva tra specie e costrutti, posizionandosi su una linea di confine dove rifugio, sostegno empatico, ed inseminazione di nutrimenti o contenuto, mai mancano di essere offerti, innescando una relazione spontanea che non pretende risposte.

 

 

NERA BRANCA (Milano, 1994) - Ramificando in una minuziosa produzione artistica, le escrescenze emotive di Nera Branca tramite l’assimilazione d’idoli decomposti, acquisiscono le sembianze di ancestrali creature di corteccia e frammenti d’osso, figlie di notti d’inchiostro nero e dei doni della montagna più segreta. Condividendo le forme del suo dolore, ci offre uno spiraglio d'accesso tra le pieghe della sua esperienza, esponendo il miraggio di un luogo interiore che è sia riservato rifugio che oscura caduta nell'oblio. La decomposizione, la sua caducità che costringe a mutare, il consumarsi ch’è al contempo l’evocarsi d’una rinascita rivelatrice, è l’epicentro da cui si srotola il filo rosso che accomuna ogni lembo di carne e segna la strada per la conoscenza e la gratitudine per il silenzio; rievocati in forme senzienti, la vita e la morte, in eterno contrasto, concedono uno spiraglio per intravedere il destino inevitabile, la speranza d’un rifugio e il terrore del mutevole ignoto, epidermidi nodose e dermatiti parassitarie che secernono proiezioni di sé nel riproporsi di sofferenze passate, plasmate dal tempo e trascritte in nuovi alfabeti di significato morale e valenza rituale.

 

STEFANO FERRARI (Gallarate 1996) - La ricerca artistica di Stefano Ferrari (Gallarate, 1996) ci coinvolge nel celebrare neonati luoghi di rifugio, di ascolto, di speranza condivisa; ci invita ad accedervi, ad assistere all'istituzione di un momento giocoso e magico che si propaga nella relazione con le vite che ne vengono a contatto e nel rapporto con l'ecosistema di cui entra a fare parte. La relazione interspecie è mediata dalla struttura domotica, ibrida d'impianti tecnologici e attrezzi dal design inumano, dove l'artificio diviene una breccia di lucida utopia, un canale d'intesa nel mantenere e preservare un habitat. L'intervento dell'artista svela la sua valenza addomesticante, in quanto atto umano che irrompe in uno schema abitudinario; questo intervento, mitigato dalla sostituzione della presenza umana stessa, suggerisce nuove prospettive di collaborazione ed empatia.

 

GABRIELE LONGEGA (Venezia, 1986) lavora all’incrocio tra ecologia e desiderio, concentrandosi sugli aspetti primitivi, esoterici e precari dei parchi e altre zone di “confine” riadattate ad aree di incontro tra uomini. Attraverso installazioni site-specific, sculture e performance, esplora le relazioni incomprensibili ed utopiche che si generano tra corpi e vegetazione. Il suo lavoro si inserisce in un dibattito contemporaneo che interroga alterità, ecologie altre e la costituzione di mondi imprevedibili e magici.

 

ANNA MARZUTTINI (Gemona del Friuli, 1990) fissa nell’opera l’intimo incontro con il paesaggio organico. Mossa dalla ricerca di una primordiale sensibilità, si immerge nella materia, restituendone una traccia in forma di disegni, dipinti e sculture. L’esperienza vissuta è recepita e filtrata attivamente dalla coscienza dell’artista, che ne incarna il ricordo in forme sfuggenti e stratificate, spinte talvolta all’astrazione in segni quanto più possibili concisi. L’enunciazione visiva, che ha come soggetto unico ed autorevole l’elemento vegetale, si mostra nella sua dimensione auto-riflessiva in un chiaro gioco di linguaggi, in cui le sagome si velano e si svelano nella loro dimensione opaca e vibrante. Le immagini divengono così suscettibili ad una molteplicità di letture e ad una continua possibilità di rielaborazione da parte degli interlocutori.


[1] I video presenti in mostra sono stati realizzati in collaborazione con Inci Atabey