Aurs al Arab (Ours?) The Wedding Party!

Informazioni Evento

Luogo
SPAZIO MENOMALE
Via De' Pepoli 1/a (40125), Bologna, Italia
Date
Dal al
Vernissage
27/01/2012

ore 18.00

Artisti
Sonny Sanjay Vadgama, Maziar Mokhtari, Sami Al-Karim, Nawras Shalhoub, Larissa Sansour, Salvatore Billeci, Hassan Hajjaj, Maurizio Maggi
Curatori
Gaia Serena Simionati
Uffici stampa
STUDIO PESCI
Generi
arte contemporanea, collettiva, new media
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Il titolo della mostra Aurs al Arab (Ours?) The Wedding Party! prende spunto dall’opera installativa di Sami Alkarim, grande artista iracheno, rifugiato politico negli USA.

Comunicato stampa

Il titolo della mostra AURS AL ARAB (OURS?) The Wedding Party! prende spunto dall’opera installativa di Sami Alkarim, grande artista iracheno, rifugiato politico negli USA.

AURS AL ARAB è un modo di dire arabo internazionale che significa The Wedding Party: festa di sposalizio degli arabi. In modo sottilmente ironico, Alkarim, fa aderire l’espressione di gioia a un’installazione costituita da una mappa di tappeto, simbolo immediato e icona par excellance degli arabi, che diviene scultura e che rappresenta l’idea che si ha del mondo medio orientale.

A una prima superficiale visione però la mappa del medio oriente risulta diversa. Infatti solo ad un approfondimento ulteriore si realizza che è capovolta specularmente. L’est diventa l’ovest e viceversa. Nell’opera sono incorporati un video centrale che ripercorre momenti della rivoluzione egiziana e due video laterali che ritraggono marionette bamboline, a indicare come la rivoluzione sia fasulla o, per alcuni, pilotata e diretta da forze religiose. È per questo che la rivoluzione diviene festa!

Al titolo AURS AL ARAB, per assonanza verbale, è stato aggiunto l’(OURS?) in inglese: “LA NOSTRA?” sottinteso festa di sposalizio, ovvero RIVOLUZIONE?

La riflessione con tutti gli altri artisti si accende, diviene più ampia, dati gli accadimenti che stanno toccando le economie globali e l’Italia stessa. La festa è finita!

La preview per la stampa sarà mercoledì 25 gennaio dalle ore 12.30 alle ore 13.30 in occasione della quale è previsto un talk con gli artisti e la curatrice.

Gli artisti invitati sono:

Sami Alkarim (Iraq)

Salvatore Billeci (Lampedusa)

Hassan Hajjaj (Marocco/England)

Maurizio Maggi (Italia)

Maziar Mohktari (Iran)

Sonny Sanjay Vadgama (Kashmir/England)

Larissa Sansour (Palestina)

Nawras Shalhoub (Palestina)

Per vedere e scaricare le immagini in alta definizione cliccare due volte sul seguente link

http://www.studiopesci.it/index.php?show=photo&id=1081

SALVATORE BILLECI

La parola è sacra. Stop killing.

Una piccola stanzetta. Glicerina liquida che si espleta in un fumo denso, avvolgente. Fasci di luce si dipanano da essa e vanno a formare parole sacre tratte dal Corano, dalla Bibbia che inondano il fruitore con la loro potenza visiva e di preghiera. Raggi luminosi accecano chi entra ignaro, colpendolo in uno spazio ristretto, volto a riesumare la tragedia che si è svolta a Lampedusa, nel sogno di una notte di mezz’estate, quella del 2011. 25 morti rinchiusi nella stiva di una barca soffocati dal fumo.

Con la video installazione dal titolo La stiva, il giovanissimo Salvatore Billeci propone la sua visione di proiezione di rivoluzione, ovvero il tentativo compiuto dai 25 profughi libici e africani morti nella stiva di un’imbarcazione precaria, nel loro tragitto verso la libertà, quest’estate a Lampedusa.

Ultimo posto dell’Europa. Primo avamposto dell’Africa! Lampedusa da sempre è terra d’immigrazione, di accettazione. Nell’estate 2011 però anche li è avvenuta una doppia rivoluzione: quella dei profughi africani, e quella della gente che si è ribellata alle promesse di un governo fantoccio.

HASSAN HAJJAJ

Con il lavoro Ladies on da roof, Signore sul tetto, Hassan Hajjaj ci mostra una doppia anima della rivoluzione: l’apparire e l’essere, l’intimo e il pubblico. Deus ex machina? Les femmes fortes arabes. Da un lato le donne che, nel mondo arabo, sono forti a tal punto da risultare leader; vestite in mimetica, col viso coperto come i militanti, in prima linea nel combattere. Dal gruppo si distingue una donna vestita in maniera diversa, con una djiallabeja a pois bianchi e neri, a indicare forse come le occidentali abbiano altre priorità, vivendo in contesti socio-culturali diversi, più legate all’apparire. L’artista marocchino residente in Inghilterra attua nel suo lavoro la scissione che investirebbe chiunque si approcci a due mondi così diversi: l’orientale con i suoi contrasti e scontri, ricco di dicotomie legate agli abissi che la sopravvivenza comporta. L’occidentale divorato dal consumismo, la superficialità dell’apparire, oggi più che mai minacciata da una crisi mondiale. Anche questa è rivoluzione!

MAURIZIO MAGGI

Colui che sente un suono intonato al proprio temperamento non può sottrarsi al suo influsso. Ibn al Arabi sufi del XIII secolo

La spettacolare, intensa installazione audio dell’ingegnere del suono Maurizio Maggi ci fa scoprire il mondo del silenzio. Con l’inaspettato accendersi di un fiammifero, come una miccia per i nostri pensieri, attivazione inconscia di fuochi, incendi di dolore e tragedia come quella che ha toccato Egitto, Siria, Iraq. Con il galoppo di cavalli, simbolo di potenza e libertà per sfuggire o per conquistare. Con il sussurrare di parole arabe discrete evocative all’orecchio, che intimano a non mollare, a tener duro. Con l’avvicinarsi di passi che inquietano perché comportano il timore dell’ignoto e di chi può sottrarci qualcosa, anzichè darcela. Su questi temi tutti connessi al mondo arabo ci fa riflettere per 4 intensi minuti e 80 secondi, Maurizio Maggi. Inventore di un rivoluzionario microfono Holofono che proietta il suono in tre dimensioni, il fruitore viene letteralmente avvolto da idee convogliate inizialmente e primariamente dal loro movimento nell’aria e nello spazio, lasciandolo senza respiro. E poi, non da meno, toccandoci l’anima.

MAZIAR MOHKTARI

Un muro: il palinsesto della vita!

Cos’e un muro? Se non un limite, una barriera, che altro? Traccia di storia, circondario per reclusi, segmento di fortificazione, protezione o aiuto. Ma altresì sbarramento, chiusura, confine, limite.

É su questa riflessione che si articola il lavoro di Maziar Mohktari, e sull’intervento del colore che cancella segni, tracce, scritte, profanazioni quotidiane di una legalità spenta. Il lavoro Palinsest, video-installazione composta da un video che accorpa centinaia di muri gialli di Isfahan e dalle loro fotografie, si abbarbica proprio a ciò che rimane di ciò che è stato tolto. Ciò che è sparito, vietato, inusuale, iconoclasta, andava tolto e con esso i suoi pensieri, i suoi pianti, le sue emozioni, come quelle scritte in farsi su un muro giallo iraniano. La rivoluzione consiste proprio nel registrare silenziosamente la sparizione di quei graffiti, di quelle parole, di quella speranza.

Un muro: una facciata eterogenea testimone del tuo girovagare nella città, nella vita. Non può, non deve sparire! E’ testimonianza d’idee, di sogni, di esistenza!

SONNY SANJAY VADGAMA

L’ologramma contemporaneo!

Originale scienziato visivo, ex assistente di produzione per la BBC, scientifico speculatore delle assurdità contemporanee, l’anglo-indiano Sonny Sanjay Vadgama, opera con scultura, fotografia e video-installazioni sonore manipolate digitalmente in 2D e 3D così da creare ambienti virtuali. Di origine indiana del Kashmir, terra di profondi contrasti geografici, religiosi e politici, seppur cresciuto a Londra, il lavoro di Sonny Sanjay Vadgama è spesso permeato dall’importanza del dialogo, rimanendo altresì focalizzato sulle sue passioni: socio-politica, tecnologia e ambiente.

In Eye for an Eye, 2008, opera in mostra, egli sincronizza l’audio a delle immagini digitali che documentano la caduta e distruzione dell’Hotel Hilton a Beirut, eretto 34 anni prima e teatro della guerra civile in Libano. Cristiani e musulmani combatterono strenuamente per il controllo della costruzione e di quelle vicine, così gli edifici passarono dall’una all’altra milizia incessantemente. Demolito nel 14 luglio 2002, L’Hilton rimane per anni simbolo di dolore, babele emotiva di danni e vicissitudini che hanno dilaniato il Libano. Ma anche territorio di pace e dialogo. L’insieme dell’accoppiamento audio di registrazioni vocali, di commenti umani ansiosi, a una proiezione circolare su larga scala, d’immagini di palazzi che cadono a catena uno dietro l’altro, solleva il tema della distruzione/sparizione di qualcosa creato dall’uomo e da egli abitato per molti anni, provocando un grande coinvolgimento emotivo nel pubblico. Riflessioni unite alla futilità della guerra, a un senso suggestivo di paura e annichilimento, oltre che impotenza di fronte alla cattiveria, inanità e violenza umana sono le reazioni immediate scaturite da tale opera d’arte. Il circolo di collassi creato da Vadgama fa da alterego al circolo vizioso di violenza instillato di generazione in generazione a causa dei conflitti in tutto il mondo, non solo nel medio oriente.

LARISSA SANSOUR

La diaspora spaziale!

A Space Exodus, il video in mostra della palestinese Larissa Sansour è, a dir poco, sorprendente. La lentezza, la calma con cui un’astronauta, l'artista stessa, si avventura passeggiando in un viaggio fantasmagorico nell'universo, alla scoperta del nuovo mondo: la luna, nasconde qualcosa di strano: una rivoluzione lunare, stellare, pacifica e ironica!

Costruito su un lembo di citazione di 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrik, il video risulta stranamente ambientato in un territorio medio orientale e riecheggia l'allunaggio di Armstrong, solo con un interprete donna e palestinese, la prima sulla luna.

Le tematiche di Kubrick: progresso, evoluzione umana e tecnologia qui assumono una connotazione ancora più marcata, laddove non ironica. Accompagnato da effetti speciali, una musica onirica e misteriosa e grande attenzione tecnica, il video è incisivo e lascia una traccia indelebile su un argomento, la diaspora palestinese e il problema del territorio, ahimè ancora attuale e irrisolto!

NAWRAS SHALHOUB

AISH: vita!

Aish in arabo significa “pane” e“vita”. E sulla vita e il pane è incentrato il video Untitled, ideato dal geniale video maker e scultore palestinese Nawras Shalhoub. Si vede in esso una piccola scultura di pane, che rappresenta la Statua della Libertà in miniatura, adagiata sulle sponde di un laghetto in un parco francese, in Alsazia, la stessa zona dove la statua fu creata originalmente. Piano piano piccioni curiosi e affamati vi si avvicinano, capendo che la statua non è una persona vera ed è soprattutto inerme. Piluccando lentamente, il simbolo ora comico, di una potenza come gli USA, miraggio di libertà, viene a sfaldarsi, sgretolandosi in briciole finite nel becco degli uccelli. La sparizione di un’icona per antonomasia legata a New York, l’eliminazione di un’idea di grandezza ironicamente ridefinita, sdrammatizza sulla potenza militare e commerciale degli Stati Uniti che si sono visti, negli ultimi anni, riadattarsi a nuove realtà e scenari una volta a loro inconcepibili. L’artista afferma sempre con sottile ironia che ha scelto come attori dei piccioni perché se avesse osato far recitare degli esseri umani sarebbe stato accusato di terrorismo.

Nel secondo video invece, dal titolo Al Schabeh, Shalhoub si focalizza sul significato di libertà, un’altra cosa che sta sempre più sparendo dal pianeta per alcuni esseri umani e per alcune civiltà a discapito di altre. Il significato in arabo ha a che fare con la tortura, il modo di ferire indelebilmente alcuni esseri umani sia fisicamente che psicologicamente, di cui i palestinesi nei territori occupati conoscono bene il significato. L’artista riprende se stesso mentre sta vivendo la drammatica forma di tortura in cui il prigioniero viene appeso a testa in giù su una sedia o attaccato per giorni a una struttura spoglia di un letto. Questo si capisce solo alla fine del video nel momento in cui le lacrime scorrono al contrario, lasciando nello spettatore un sentimento misto di sorpresa, amarezza ed empatia verso il dolore provato.

L’empatia aumenta ancora quando si capisce che questa, rispetto a quelle ben più drammatiche sia morali che fisiche, è la forma meno invasiva di tortura perché il prigioniero non viene toccato. La performance é compiuta con un sottofondo di musica classica di Beethoven che rende surreale l’avvenimento.