È un breve testo di Mauro Staccioli ad aprire il volume dedicato ai suoi Anni di cemento 1968-1982 (Edizioni Il Ponte, pagg. 224, s.i.p.) e, al suo interno, è un’altrettanto breve dichiarazione a costituire la sintesi del suo approccio alla scultura: “Ho scelto il cemento, sempre pesante, faticoso e concreto, perché l’ho appreso in casa, da mio padre carpentiere”. In poche parole, molti elementi: la connotazione del materiale, il riferimento all’artigianato, il legame con la storia individuale e quindi – anche se non si tratta di un’inferenza obbligata – con la Storia.
Il libro presentato qui è un catalogo legato a una mostra tenutasi contemporaneamente alla Galleria Il Ponte di Firenze e alla Galleria Niccoli di Parma. Ma è soprattutto, come sottolinea Andrea Alibrandi, la prima pietra posta alla base dell’attività dell’Archivio Mauro Staccioli, e dunque una sorta di spaccato di quel che sarà il catalogo generale dell’opera dell’artista. Ragion per cui il lavoro compiuto è di natura scientifica, frutto di una ricerca minuziosa. E complicata, poiché molti degli interventi di Staccioli realizzati in quegli anni sono dispersi o smantellati, ed è quindi stato necessario far ricorso in maniera massiccia a materiale preparatorio e/o documentario.
Qui sta un altro un punto interessante: proprio come l’arte ha iniziato a un preciso momento del suo sviluppo a interessarsi alla propria processualità, così da qualche tempo alcuni musei (e un numero ridotto ma significativo di gallerie) ha iniziato a mostrare la documentazione legata al lavoro artistico. Lo si è visto ad esempio nella rassegna Le scatole viventi al Castello di Rivoli, ed è una componente basilare in questa doppia mostra. E si badi, non si tratta (soltanto) di legittimo scrupolo filologico, ma di facilitare una comprensione profonda del contesto fattuale e ideale in cui un lavoro prende forma.
Tornando al libro, da segnalare il preciso saggio critico firmato da Bruno Corà, analisi social-formale dello sviluppo della poetica dello scultore volterrano nell’arco di quella fondamentale quindicina d’anni. Uno sviluppo coerente che attraversa gli anni più difficili e fecondi del nostro Paese, e che Staccioli ha saputo interpretare con una partecipazione tutta da ri-valorizzare.
Non si parla tanto – forse troppo – di Nuovo Realismo? Si osservino allora le punte e le barriere, i muri e i fossi del toscano, che mai si sottraggono al confronto con l’ambiente circostante, anche qualora sia necessario farlo in maniera conflittuale. Ecco, di questo realismo “proattivo” abbiamo bisogno, e lo studio dell’opera di Staccioli può esserne un ottimo viatico.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #7
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