Tutto Gianni Rodari in un dizionario. 6 voci in anteprima

Sarà in libreria a partire dal 12 gennaio 2021 il dizionario dedicato a Gianni Rodari, di cui nel 2020 ricorreva il centenario della nascita e il quarantennale della morte. Qui trovate in anteprima sei voci, rispettivamente dedicate a “Burattini”, “Errori”, “Fumetti”, “Munari”, “Pittura” e “Surrealismo”.

BURATTINI

Gianni Rodari e il teatro, 1974

Gianni Rodari e il teatro, 1974

Ho un progetto sicuro, molto serio, importante: la prima cosa sarà di farmi crescere una grande barba bianca, e se non sarà bianca la tingerò di bianco, ma lunga, molto lunga e voglio fare il burattinaio
Gianni Rodari

Rodari venne a Reggio Emilia per i suoi Incontri con la fantastica nel marzo del 1972. Allora facevo parte del Teatro Sperimentale dei Burattini di Otello Sarzi. Su suggerimento del coordinatore delle Scuole Comunali dell’Infanzia, Loris Malaguzzi, avevo iniziato una sperimentazione per sostenere l’uso dei burattini nelle scuole. A questo titolo ho partecipato agli incontri sulla Fantastica.
La vigilia, mi trovavo in una scuola intento a seguire i bambini che costruivano i loro burattini, quando entrarono Malaguzzi e Rodari il quale espresse la sua curiosità per il nostro lavoro. Scrisse poi nella Grammatica della Fantasia: “Sarzi e i suoi amici hanno fatto molto per i burattini. Ma io credo che abbiano fatto la cosa più importante quando hanno cominciato ad andare nelle scuole non solo per fare degli spettacoli ma per insegnare ai bambini a fabbricarsi i loro burattini e muoverli”. L’anno seguente, il Comune di Reggio Emilia istituì il “Laboratorio di animazione teatrale” (ora intitolato a Rodari) che ho diretto per trenta anni. Successivamente venne anche istituzionalizzato il mio ruolo di burattinaio. Nella rubrica Benelux di Paese sera Rodari commentò la notizia della mia regolare assunzione con queste parole: “Un bell’esempio di creatività burocratica”.
Rodari mi chiese di accompagnarlo ad altri suoi corsi di “fantastica” per proporre giochi di improvvisazione ai partecipanti: “Due burattini scelti a caso sono un ‘binomio fantastico’”.
Nel luglio 1977 Rodari ed io, insieme ad altri sei italiani, fummo invitati come formatori alla Scuola d’Estate di Barcellona. Per l’associazione di maestri “Rosa Sensat” era la prima iniziativa pubblica dopo decenni di fascismo. A questa Scuola, che durò quindici giorni, composta da 300 corsi sui temi più vari, si iscrissero 10.000 maestri.
Rodari lo conoscevano e lo ricercavano tutti. Non dimentichiamo che lui era un uomo di parte, un militante intimamente e coerentemente comunista, fin da giovane impegnato contro il fascismo. In quell’ambiente, pieno com’era di voglia di rinnovamento, Rodari si sentiva a casa. Nella Catalogna che doveva abolire delle leggi, immaginarne altre nuove, decidere di quale scuola dotarsi, era esaltante per lui trovarsi a partecipare a questo promettente momento d’inizio.
Rodari aveva una conoscenza diretta dei burattini: “Da bambino, e ancor più da ragazzo, ho giocato molto con i burattini (…). C’era nelle vicinanze un sottoscala che aveva un finestrino aperto su un cortile. Quella fu la mia baracca, e il finestrino il boccascena”.
Il futuro scrittore Giulio Ossola era suo compagno in questi giochi, secondo la testimonianza del figlio Carlo. Trascorsa l’infanzia, Rodari in altre occasioni ha dato vita ai burattini: “...da maestro di scuola, per i miei scolari di un paesetto in riva al lago Maggiore (…); da uomo fatto, per qualche settimana, con un pubblico di contadini che mi regalavano uova e salsicce. Burattinaio, il più bel mestiere del mondo”.
Interessato com’era al mondo dell’infanzia (“Vorrei far parte del comitato d’accoglienza dei bambini nel mondo”), aveva riflettuto sulla suggestione che i burattini esercitano sui bambini. Una breve osservazione nella Grammatica della fantasia ci conferma l’esperienza diretta del suo autore: “Però un burattino solo, se ci sa fare, può dialogare per ore con il suo pubblico di bambini, senza stancarsi e senza stancarli”.
Le dichiarazioni riguardo al suo intento di diventare burattinaio fanno ritenere che fossero motivate principalmente dal suo gusto di inventare storie da raccontare ai bambini. Altre dichiarazioni chiariscono invece che, più che come scrittore, Rodari proponeva i burattini da pedagogista. L’interesse di Rodari per questa forma di comunicazione è da ricercare in una sua immagine molto ricca delle capacità del bambino e del suo impulso a comunicare. Rodari dunque non pensava soltanto al bambino spettatore ma anche al bambino a scuola, al bambino in famiglia, al bambino con i compagni, al bambino intero.
Non aveva idee preconcette per nessuna cosa che potesse essere apprezzata dai bambini. Parlava dei burattini con cognizione di causa. Aveva sperimentato su di sé la forte tendenza messa in atto dal burattino a “prendere la mano” per esprimere qualcosa di più, o di altro, sfuggendo così al controllo cosciente del suo animatore.
Rodari era convinto che i burattini dovevano entrare a pieno titolo nella scuola come uno dei “cento linguaggi” (parole di Malaguzzi) creati dall’umanità per comunicare. Rodari: “Non perché tutti siano artisti ma perché nessuno sia schiavo”. Nella Grammatica della fantasia ricorda come i burattini animati dai bambini ci restituiscano la vera voce dell’infanzia. Caldeggiava dunque la loro presenza in educazione, non certo per confinarli alla sola ricreazione, o per insulsi saggi finali e neppure come un subdolo artificio per rendere un po’ più elettrizzante la noiosa trasmissione di nozioni.
Credo che noi tutti dovremmo essere molto grati ai burattini di Rodari, dico a quelli veri, costruiti da lui e manipolati personalmente, poiché gli hanno insegnato qualcosa. Tra burattinaio (che sia bambino o adulto, professionista o meno) e burattino si stabilisce il medesimo rapporto che si stabilirà, per esempio, tra Rodari e Benelux. Come infatti ha giustamente osservato Diamanti, Benelux non è uno pseudonimo, non è Rodari, bensì un personaggio dall’identità formata, è un altro. Benelux viene infatti presentato dal suo creatore con dovizia di particolari biografici: “Sposato, con prole, cambiali, umori e malumori suoi” (Benelux, 21 dicembre 1969), esattamente come fanno intendere i burattinai tradizionali per rendere “reale” il loro personaggio.

– Mariano Dolci

ERRORI

Gianni Rodari – Filastrocche in cielo e in terra (Einaudi, Torino 1960)

Gianni Rodari – Filastrocche in cielo e in terra (Einaudi, Torino 1960)

L’errore viene presentato nell’opera rodariana come occasione per lo sviluppo della creatività: una delle tecniche presenti ne La grammatica della fantasia è, infatti, proprio quella dell’“errore creativo”. Rodari si oppone alla logica secondo la quale l’errore vada sanzionato perché ne intuisce le potenzialità pedagogico-didattiche: gli errori sono materiale di lavoro, demonizzare e punire gli errori fa sì che gli studenti temano di tentare, di azzardare, di provare, e inoltre gli errori sono anche strumenti didattici attraverso i quali è possibile creare, ideare, aprire nuovi mondi.
La sua concezione dell’errore non finisce di interessare e stupire. In un esperimento di scrittura creativa in due corsi di Italiano (livello intermedio e avanzato) destinati a studenti giapponesi della Graduate School of Language and Culture dell’Osaka University sono stati utilizzati il raccontino de L’acca in fuga e la poesia Ladro di “erre” presenti ne Il libro degli errori, nei quali Rodari descrive le conseguenze causate dall’assenza della lettera “h” nell’alfabeto italiano e della lettera “r” dalla parola “armato” (riferendosi al cemento armato di un ponte). Il secondo testo è risultato particolarmente utile in quanto gli studenti giapponesi faticano a distinguere la pronuncia delle lettere “r” e “l” nella lingua italiana, riproducendo la medesima confusione negli esercizi scritti; gli studenti hanno potuto osservare il lato divertente del commettere errori.
A seguito di questo primo esperimento è stata poi utilizzata la tecnica della “storia capovolta”, che prevede di sbagliare, volontariamente, le favole tradizionali per capovolgerle. In un primo momento è avvenuta la lettura della versione italiana di Cappuccetto Rosso, successivamente si è passati alla lettura della versione della storia elaborata da Rodari. Gli studenti hanno potuto quindi rielaborare a loro volta la fiaba di Perrault utilizzando un punto di vista differente. Attraverso l’utilizzo delle tecniche proposte da Rodari, gli studenti giapponesi oltre a riflettere sul potenziale creativo degli errori, hanno superato la paura di commettere errori di scrittura e di pronuncia e hanno inoltre potuto analizzare la lingua italiana da diversi punti di vista. Rodari ne sarebbe stato, probabilmente, entusiasta.
All’Università di Castiglia-La Mancia, per favorire lo sviluppo della creatività degli studenti nella realizzazione di progetti e nuovi prodotti da proporre sul mercato sono state utilizzate le tecniche rodariane dell’“ipotesi fantastica”, delle “favole a rovescio”, dell’“analisi creativa”, dell’“insalata di favole” e dell’“errore creativo”, che hanno permesso di attivare processi di problem solving per l’individuazione di soluzioni adeguate. Gli autori ritengono che in ambito universitario non venga dato opportuno spazio all’utilizzo di tali tecniche, che invece, anche mediante il supporto di apparati tecnologici, risultano particolarmente utili per favorire lo sviluppo di nuove idee e il processo creativo.
Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio, la torre di Pisa”. Questa frase contenuta in Tra noi padri, introduzione e dedica de Il libro degli errori, esprime, in una sintesi feconda, la posizione di Rodari riguardo agli errori. Gli errori sono utili, necessari e belli. Sono utili perché sono rivelatori dei processi di pensiero e delle comprensioni e incomprensioni, sono necessari perché si passa per gli errori in qualsiasi tipo di apprendimento e sono belli perché generativi. L’approccio di Rodari, ancora una volta, si rivela anticipatore: oggi la ricerca didattica e valutativa è approdata, per altri percorsi, alle stesse conclusioni. Contrariamente a quanto affermato dai detrattori della pedagogia rodariana, infatti, essa è tutt’alto che “facile”, a più riprese anticipa le più recenti conclusioni della ricerca educativa basata su evidenze quali-quantitative.
Purtroppo tra ricerca educativa e pratiche scolastiche ancora oggi, con qualche eccezione, esiste una distanza che a volte pare incolmabile. L’errore, nella tradizione scolastica italiana, era ed è considerato come rivelatore di un mancato apprendimento spesso tradotto, con una sorta di automatismo errato (questo sì, un errore grave), come il frutto di un mancato impegno, dunque degno di sanzione. Il meccanismo di pavloviana memoria per cui sanzionando l’errore si produce il comportamento adeguato ha mostrato, a più riprese, la propria fallacia, eppure, resistendo all’evidenza, gli approcci così orientati sopravvivono.
Un fenomeno come quello dell’impotenza appresa, ovvero la convinzione interiorizzata precocemente, da parte di tantissimi bambini, di non riuscire indipendentemente dal proprio impegno, in determinate aree di apprendimento, come conseguenza di alcune risposte o prove accolte negativamente, dovrebbe metterci in allerta. Così non è. La conseguenza è la demotivazione e il disimpegno rispetto all’apprendimento. Il misconcetto deriva da un’errata concezione della valutazione, come momento slegato dall’apprendimento. Il momento della valutazione non può che essere integrato all’apprendimento e contribuire ad esso. In una concezione in cui la valutazione viene separata dall’apprendimento la sua funzione è solo quella di classificare e selezionare, se questo processo si avvia dall’inizio della scolarizzazione non fa che confermare i diversi punti di partenza. Lo svantaggio iniziale, allora, si trasforma in condanna. In una concezione invece in cui la valutazione è integrata all’apprendimento allora essa ha, come funzione principale, quella di farlo progredire: la valutazione diventa strategica per incrementare l’apprendimento e l’errore è il protagonista di questo processo. Solo l’errore, la somma degli errori, a volte, consente di riorientare e migliorare la didattica, di dare supporto valutativo, attraverso feedback frequenti che sostengano l’apprendimento, in direzione di una progressiva autonomia. L’errore può tutto questo. Riposa, nella prima concezione, anche un’idea di istruzione (più che di apprendimento) legato al timore della sanzione che si è rivelato, messo alla prova delle evidenze, inefficace. Pur se fosse efficace, tuttavia, per dirla con Rodari: “Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?”.

– Federico Batini

FUMETTI

Gianni Rodari, Tavolino, apparecchiati!, in “La Via Migliore”, 1974

Gianni Rodari, Tavolino, apparecchiati!, in “La Via Migliore”, 1974

Si potrebbe dire che sul fumetto Gianni Rodari abbia da sempre ricercato una visione equilibrata anche se, nel tempo, la sua posizione è ricca di sfumature e diversificazioni. Lo considera un mezzo di comunicazione importante, perché la sua lettura richiede un notevole esercizio immaginativo, un lavoro di raccordo non solo tra immagine e parola ma anche tra i vari personaggi, i rumori, le azioni, un’attività del cervello per il collegamento tra una vignetta e l’altra. È un modo di raccontare con la sua dignità dunque, con tutti i diritti di cittadinanza. Ma, precisa Rodari soprattutto nei suoi interventi degli anni cinquanta e sessanta, da solo è uno strumento troppo povero per arricchire la mente. Il fumetto, giova ricordarlo, all’epoca era considerato un mezzo destinato a bambini e ragazzi, tra i quali era molto diffuso.
Con questa posizione generale Rodari prendeva le distanze sia dai pregiudizi di chi vedeva nel fumetto uno strumento pericoloso per l’equilibrio dei giovani, sia da alcuni intellettuali che lo consideravano uno strumento di grande valore sul piano linguistico e formativo. È utile ripercorrere alcuni suoi scritti tenendo conto che essi sono legati a vicende singolari della sua attività di giornalista e di scrittore.
Nel 1950 Rodari lavorava a l’Unità e curava, tra l’altro, una rubrica destinata ai bambini. Pare sia stato lo stesso Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, a chiamarlo e a incaricarlo di fondare e di dirigere un giornalino per ragazzi da distribuire nelle Case del popolo e tra i pionieri, associazione che proponeva all’infanzia giochi, sport, soggiorni, attività ricreative ed educative. Così nel settembre dello stesso anno uscì il Pioniere diretto da Gianni Rodari e Dina Rinaldi. Era un settimanale e conteneva informazioni scientifiche e divulgative, molto umorismo, fumetti ben disegnati e ben curati nelle sceneggiature, racconti d’avventura, filastrocche (Rodari creò qui il personaggio di Cipollino).
Alla fine del 1951 Nilde Iotti, parlamentare comunista, scrisse su Rinascita, mensile del suo stesso partito, un articolo contro il fumetto. Era visto come espressione dell’imperialismo americano che tendeva ormai a conquistare anche l’immaginario e le coscienze dei giovani di tutto il mondo; la stessa Iotti lo assolveva tuttavia dall’incitamento alla violenza, ritenendo questa un fatto sociale le cui origini andavano ricercate in altre direzioni. Quest’ultima precisazione era importante: in Italia, ma anche nella stessa America, c’era all’epoca una campagna contro i fumetti, accusati di corrompere la gioventù, di incitare i ragazzi alla violenza, alla criminalità e di generare in loro turbe sessuali.
Rodari, che dirigeva il Pioniere nel quale i fumetti abbondavano, si sentì ovviamente toccato dall’intervento della Iotti e replicò, sempre su Rinascita, dissentendo proprio sulla visione del fumetto come strumento nocivo di per sé. “E perché”, scrisse, “non sarebbe legittimo raccontare in questo modo? Vi sono molti modi di raccontare, con la parola scritta, con la voce, con l’immagine ferma o con l’immagine in movimento (cinema, disegni animati ecc.). Ognuno ha la sua funzione”.
Ma in questo stesso intervento Rodari, mentre riconosceva al nuovo mezzo la forza di narrare, si mostrava scettico su una presunta ricchezza del mezzo stesso, il fumetto veniva considerato un povero surrogato del cinema.
Lo scrittore di Omegna tornerà più volte sulla questione fumetto. Nel 1959 difese il giornale Paese sera per la scelta di pubblicare a puntate alcune tavole a fumetti di Gordon Flash affermando tra l’altro: “La fantascienza, Gordon compreso, è un gioco: come le parole incrociate o il tressette. Come gioco ha ben diritto di cittadinanza anche nei giornali più seri”. Nel 1966 tornò di nuovo sulla povertà del mezzo con parole particolarmente dure. Sulla rivista Riforma della Scuola, in un dibattito con Alberto Alberti e Fernando Rotondo, ripeté che il fumetto “è troppo povero in se stesso per arricchire la mente del lettore”, pertanto non può “costituire elemento negativo, corruttore, eccetera. È moralmente troppo povero anche per questo… Il male nasce quando i ragazzi leggono solo fumetti: ma questo non è colpa loro. Nella maggioranza delle case delle famiglie italiane c’è un televisore, ma non una libreria”.
Nello stesso anno, sul Giornale dei genitori, per spiegare la poca lettura in Italia, scrisse: “Conosco filosofi che almeno una volta alla settimana leggono un libro giallo. Eppure non si può mettere in dubbio che la loro passione dominante sia la filosofia. Conosco ragazzi che leggono molto e coltivano, con la mano sinistra, l’orticello del fumetto… Non c’è un rapporto di causa effetto tra passione per i fumetti e l’assenza d’interesse per le buone letture”. Anche nelle sue opere narrative il fumetto appare sempre strumento innocuo e povero e questa povertà può costituire un problema quando è lettura esclusiva. Prima di tutto povero linguisticamente, come si capisce bene ne Il topo dei fumetti (in Favole al telefono), storia di un topo che salta fuori da un albo e viene nel mondo dei topi in carne ed ossa. Solo che sa parlare solo come si parla nei fumetti – squash, ziip, crengh – e gli altri topi non capiscono, lo emarginano, lo tengono un po’ come lo scemo del villaggio. Soltanto quando il topo dei fumetti incontrerà un gatto dei fumetti riesce a comunicare. È un principio irrinunciabile per Rodari: un buon uso del linguaggio è necessario per i rapporti tra le persone e per liberarle dalla schiavitù dell’ignoranza.
Ma è finalmente nella Grammatica della fantasia che Rodari riconosce pienamente al fumetto valenze pedagogiche, addirittura superiori a quelle del cinema, dove le immagini si susseguono in continuità e scarsa è l’interazione con lo spettatore. La lettura di un fumetto è ricca di “operazioni logiche e fantastiche, indipendentemente dal valore e dai contenuti che qui non sono in discussione. La fantasia non assiste passiva, ma è sollecitata… Non c’è posto per la vacua fantasticheria, fin che la mente è costretta a un’attenzione complessa, la fantasia chiamata ad assolvere alle sue funzioni più nobili”.
Sul fumetto Rodari torna così tante volte nei suoi scritti al punto che risulta ipotizzabile e credibile che proprio il fumetto sia stato, fin dagli inizi, una base di ricerca anche per le sue opere letterarie. Quando fu chiamato a fondare il Pioniere, per svecchiare la letteratura per l’infanzia si orientò verso l’umorismo, il ridere e il sorridere e attinse a quello che di comico e umoristico c’era nella tradizione, quindi anche ai fumetti. Che abbia pensato ben presto a Sergio Tofano è scontato: mentre Tofano sui fumetti del Corriere dei piccoli scriveva “Qui comincia l’avventura / del signor Bonaventura”, Rodari iniziava a scrivere sul Pioniere, con lo stesso ritmo degli ottonari, “Qui comincia aprite l’occhio / l’avventura di Pinocchio”.
A proposito di comico, i fumetti si chiamano anche “comics” e, chissà, non è escluso che anche per questo abbiano attirato tanto la sua attenzione. Di fatto questa attenzione per i giornalini per ragazzi rimase viva per tutta la vita. Molti dei suoi capolavori sono nati prima a puntate: sul Pioniere, sul Corriere dei piccoli, su La Via migliore.

– Ermanno Detti

BRUNO MUNARI

AA. VV. – Munari per Rodari (Corraini Edizioni, Mantova 2020)

AA. VV. – Munari per Rodari (Corraini Edizioni, Mantova 2020)

Nato nel 1907 a Milano (dove è morto nel 1998) e subito vicino al futurismo, Bruno Munari è stato un artista “inclassificabile”, com’ebbe modo di scrivere Rodari, animato da un’inesauribile spinta all’esplorazione giocosa e gioiosa delle possibilità espressive delle arti visive. Uomo dall’ingegno multiforme, con le sue opere e il suo lavoro di riflessione teorica ha segnato una svolta fondamentale nella storia del design, rappresentando un punto di riferimento internazionale per la comunicazione visiva e la grafica editoriale del secondo Novecento (Arte come mestiere, 1966; Design e comunicazione visiva, 1968; Codice ovvio, 1971; Da cosa nasce cosa, 1981).
Conquista una prima notorietà, all’inizio degli anni trenta, con l’invenzione delle “macchine inutili”, macchine umoristiche dalle funzioni improbabili – come il motore a lucertola per tartarughe stanche – parzialmente pubblicate, insieme a giochi di parole e raccontini strani, in Le macchine di Munari (Einaudi, 1942).
Dalla metà degli anni quaranta è stato autore di singolarissimi libri per bambini – tra cui Mai contenti (1945) e Storie di tre uccellini (1945), usciti per Mondadori – arrivando a concepire forme di sperimentazione sempre più radicali e innovative come quelle dei “libri illeggibili” (1949-1966), dove non ci sono parole e la storia è comprensibile seguendo esclusivamente il filo del discorso visivo; un approccio alla narrazione ulteriormente indagato nel segno della materialità nei più tardi Prelibri editi da Danese nel 1980.
Vere e proprie pietre miliari, nella storia dell’albo illustrato in Italia, sono Nella notte buia (Muggiani, 1956) e Nella nebbia di Milano (Emme Edizioni, 1968), che hanno indicato un modo rivoluzionario di pensare il libro in quanto oggetto sensorialmente esperibile, “libro-giocattolo” avrebbe scritto Rodari, “macchina per tener desta l’attenzione, per sollecitare il riso, la fantasia, il sentimento, per insegnare a vedere”, aprendo una pista inedita nel territorio sterminato delle forme possibili del racconto, non solo per bambini, e della sua profonda valenza educativa: “‘Nella nebbia di Milano’ possiede questa capacità in grado talmente elevato che non pochi, dopo averne sfogliato le pagine, dicono: ‘Ma questo è un libro per i grandi!’. Un giudizio sbagliato, che nasce appunto dall’equivoco delle classificazioni tradizionali: ‘per piccoli’, ‘per grandi’. Tutti i libri di Munari per i bambini sono anche libri per grandi […] sono un appello all’immaginazione, un invito a godere direttamente delle cose, senza la mediazione di schemi letterari, culturali o d’altro genere. In questo senso sono anche i libri più moderni che si possano dare a un bambino: sono molto più in là delle stanche polemiche sulla possibilità di una letteratura infantile, sul suo carattere (arte o cultura? Poesia o professionismo?), sulle sue funzioni (educare o divertire? come se educazione e noia dovessero coincidere, divertimento e futilità essere sinonimi…)”. (Rodari, 1969)
Con una già lunga esperienza da progettista d’inauditi libri per bambini, nel 1960 Munari illustra le Filastrocche in cielo e in terra, prima tra le opere di Rodari a essere pubblicata da Einaudi, per il quale adotta uno stile inconfondibile, nella sua essenzialità costituita da elementi che rimandano esplicitamente allo sguardo infantile e ai segni colorati, aperti, intensamente comunicativi tipici nei disegni dei bambini: una scelta estetica e concettuale che caratterizzerà gli apparati illustrativi che realizzerà per gli altri libri pubblicati dallo scrittore di Omegna con Einaudi (Favole al telefono, 1962; Il pianeta degli alberi di Natale, 1962; Il libro degli errori, 1964; La torta in cielo, 1966) accompagnandolo nella conquista di un sempre più esteso pubblico nazionale. Sempre per Einaudi, tra 1972 e 1978, Munari dirigerà anche la collana di albi illustrati Tantibambini, tanto innovativa per concezione grafica e originale nelle proposte narrative, quanto commercialmente sfortunata: vi compariranno anche i celebri Cappuccetto Verde (1972) e Cappuccetto Giallo (1972), poi confluiti in Cappuccetto Rosso, Verde, Giallo, Blu e Bianco (1981).
La profondità del legame tra Munari a Rodari non nasce tuttavia dalle pur numerose e felici collaborazioni editoriali, si fonda piuttosto su una condivisa attenzione ai problemi scolastici ed educativi che affonda le radici nella naturale predisposizione all’osservazione e all’interazione con l’infanzia reale di cui sono emblema significativo i laboratori sulle arti visive condotti da Munari a partire dal 1977. Tale riflessione si deposita nelle due opere capitali degli anni settanta – Grammatica della fantasia (1973) di Rodari e Fantasia (1977) di Munari – che celebrano la fantasia, l’uno nella sfera del verbale, l’altro in quella del visivo, per la sua natura emancipatoria e non meramente evasiva: “Non perché tutti siano artisti”, avrebbe scritto icasticamente Rodari chiudendo l’introduzione alla sua Grammatica, “ma perché nessuno sia schiavo”. Il fatto che fantasia e creativit.àsiano strumenti di liberazione accessibili a tutti e a tutti necessari, in quanto diritto e in quanto possibilità di operare concretamente sul reale, nella prospettiva di una società migliore e più felice, dà una misura chiara della responsabilità che grava sulle spalle degli adulti, insegnanti, educatori o genitori che siano, come scrive Munari in Fantasia: “La crescita culturale della collettività dipende da noi come individui, dipende da quello che diamo alla collettività. Noi siamo la collettività. La società del futuro è già tra noi, la possiamo vedere nei bambini. Da come crescono e si formano i bambini possiamo pensare a una società futura più o meno libera e creativa. Dobbiamo quindi liberare i bambini da tutti i condizionamenti e aiutarli a formarsi. Sviluppare ogni personalità perché questa possa aiutare la crescita collettiva”.

– Martino Negri

PITTURA

Gianni Rodari, Tre fanciulli giocano all’altalena con le nuvole, amorosamente sorvegliati da una suona, con sole piccolo, 1973

Gianni Rodari, Tre fanciulli giocano all’altalena con le nuvole, amorosamente sorvegliati da una suona, con sole piccolo, 1973

Se non sapessimo, come ci racconta Marcello Argilli, che probabilmente il partigiano Gianni Rodari nel 1945 ha salvato la vita al pittore fascista e repubblichino Mario Sironi, potremmo dire che l’interesse del nostro scrittore per la pittura non è stato poi così rilevante. L’aneddoto effettivamente rivela attenzione gusto e rispetto dello scrittore verso l’arte di qualità, al di là delle ideologie.
Questa sensibilità culturale ricorre senz’altro nel maggiore dei suoi contributi teorici, la Grammatica della fantasia (1973), dove Rodari si mostra appassionato lettore degli scritti di Paul Klee. In quelle stesse pagine viene utilizzata la fenomenologia della pittura metafisica e surrealista di Max Ernst e di Giorgio de Chirico per dimostrare l’essenza del “binomio fantastico”, una delle tecniche compositive per cui Rodari è oggi più ricordato: “Ho letto […] quel che ha scritto Max Ernst per spiegare il suo concetto di ‘spaesamento sistematico’. Egli si serviva proprio dell’immagine di un armadio, quello dipinto da de Chirico nel bel mezzo di un paesaggio classico, tra ulivi e templi greci. Così ‘spaesato’, precipitato in un contesto inedito, l’armadio diventava un oggetto misterioso. Forse era pieno di vestiti e forse no: ma certamente era pieno di fascino”. Del resto Rodari è consapevole che certe cose con le parole non si possono dire e che le immagini, come quelle dipinte da Antonio Faeti per illustrare le funzioni di Propp, sono spesso insostituibili. Anche nella scrittura creativa, egli ricorre più volte alla figura del pittore come rappresentante delle categorie sociali che più gli stanno a cuore: i liberi, gli emarginati, i non omologati.
Il pittore (Libro delle filastrocche, 1951) è così povero che si costruisce i pennelli con i suoi propri capelli e, non avendo soldi per acquistare i colori, non gli rimane che utilizzare il rosso del suo sangue. Solo così egli potrà dipingere “una tela intera, / rossa come un falò di primavera, / rossa come una bandiera, / come un milione di rose. // E il povero pittore / adesso che aveva un colore / si sentì ricco più di un imperatore”. Si tratta di una filastrocca molto legata al dibattito sull’impegno politico di intellettuali e artisti fra anni quaranta e cinquanta del Novecento, dove la tela del pittore che diventa bandiera rossa (rossa di sacrificio e di sangue del lavoratore) non può che ricordare il coevo quadro di Giulio Turcato, Comizio (1949). Anche nel Romanzo di Cipollino, sempre del 1951, la menzione del disegno, questa volta come espressione della libera creatività infantile, si presta a una presa di posizione pedagogica, culturale e, in definitiva, politica. Questa attività, allo sguardo dei più Conservatori, appare sovversiva e inutile rispetto a una scuola che predilige la didattica tradizionale basata su meccaniche tecniche nozionistiche. È quanto si evince dalle parole di don Prezzemolo, il precettore di Ciliegino, per il quale la grande lezione di Giuseppe Lombardo Radice sull’importanza dell’esperienza grafica del bambino sembra essere passata del tutto inosservata: “Se Ciliegino apriva il suo albo per disegnare qualche bella figura, saltava fuori chissà da dove don Prezzemolo, si soffiava il naso e cominciava: – Guai a quei ragazzi che perdono il tempo a disegnare le belle figure. Che cosa potranno diventare da grandi? Al più al più degli imbianchini, cioè persone sudice e malvestite che girano giorno e notte a insudiciare i muri e perciò finiscono in prigione come si meritano”.
Nella Freccia Azzurra (1954) Rodari dedica un capitolo alle Storie meravigliose di una scatola di pastelli dove descrive la festosa avventura di Franco, bambino povero, alle prese con un dono inaspettato. I colori primari, personificati, prendono la parola e inscenano una mirabolante attività creativa: “Come tutti sanno, il Verde ha due zii: il Giallo e l’Azzurro; l’Arancione è cugino del Rosso; il Viola è cugino dell’Azzurro e del Rosso; poi ci sono tante altre parentele, complicate come tutte le parentele di questa terra”. L’affermazione conclusiva di Franco – “Sapete che non ho mai ricevuto un regalo dalla Befana prima d’ora? E voi siete il regalo più bello che io potessi ricevere. Figuratevi che voglio diventare pittore” –, manifesta una precoce vocazione infantile per la pittura e attribuisce alla creatività visiva il potere immersivo di far dimenticare le tristezze del quotidiano. La forza espressiva e l’autonomia di vita del disegno che i colori schizzano per Franco (così come avviene per la scultura in Pigmalione e in Lo scultore Riccardo) consentono al bambino di distrarsi e di ridere, di vivere in un mondo parallelo. Anche in questo caso la materializzazione della pittura, ora in forma di bandiera tricolore, ora in forma di bandiera rossa, fa virare il racconto verso un significato politico che allude, più che a univoci orientamenti partitici, come in un primo momento si potrebbe pensare, alla forza dell’arcobaleno finale, “una bandiera di sette colori”, che anticipa, in tempi non sospetti, temi legati alle pedagogie del pacifismo, dell’inclusione sociale e dell’intercultura, oggi di grande attualità. La figura del bambino che da grande vuole fare il pittore ritorna nella poesia A un bambino pittore (Il libro degli errori, 1964). Qui il disegno e i colori sono gli strumenti che consentono all’infanzia di posizionarsi con autorevolezza nella vita e nel mondo, significano la conquista e il coraggio dell’identità personale: “Disegna figure grandi, / forti, senza paura, / pronte a partire per / una bella avventura”. Palesemente sensibile alla prospettiva psicopedagogica che afferma il possibile significato predittivo del disegno infantile, Rodari sarà sempre fedele osservatore del bambino pittore, tanto che, ancora oggi, il fortunato visitatore ammesso nelle stanze della sua casa romana, appena varcata la porta d’ingresso, si imbatte in un grande pittura di Mario, un piccolo alunno di Maria Luisa Bigiaretti, la maestra della borgata del Trullo che di Rodari e della sua fiducia nella creatività linguistica e grafica dell’infanzia fu intelligente sostenitrice.

– Lorenzo Cantatore

SURREALISMO

André Breton, René Hilsum, Louis Aragon and Paul Éluard, for the release of the DADA N°3 review, 1919 – © Rue des archives/PVDE

André Breton, René Hilsum, Louis Aragon and Paul Éluard, for the release of the DADA N°3 review, 1919 – © Rue des archives/PVDE

Si deve anche a Breton e alle tecniche compositive da lui suggerite la maturazione e l’evoluzione di quell’idea che percorre l’intera carriera letteraria di Gianni Rodari e che si dispiega in una strenua ricerca degli strumenti della composizione poetica e narrativa, la sistemazione dei quali avrebbe condotto Rodari alla definizione di un nuovissimo campo del sapere da lui battezzato “fantastica”. È il frammento 1095 di Novalis, in primis, a suggerirgli che sia possibile individuare i processi genetici dell’invenzione e che quindi esista un contraltare della logica, chiamato, se vogliamo, “fantastica”: una scoperta che rende il processo creativo più democratico, non più appannaggio dei pochi poeti, ma di chiunque impari a padroneggiare i meccanismi dell’immaginazione. Rodari legge Breton a partire, si crede, dal 1940, nel fascicolo che la rivista Prospettive dedica al surrealismo, sottolineandone l’importanza culturale in un momento storico in cui la lingua italiana ha uno straordinario bisogno di tornare viva e vivificare, in questo modo, la letteratura. Il surrealismo impone la sua forza innovativa soprattutto nell’uso di nuove strutture linguistiche e, se è vero, come dichiara Rodari, che la scrittura per bambini fa irruzione per caso nella sua produzione, ossia quando il quotidiano l’Unità gli assegna la pagina La domenica dei piccoli (1949), e che, stando alle testimonianze di suo pugno che raccontano l’episodio, c’è un legame stretto tra queste prime poesie e il gusto del surrealismo saggiato alla fine degli anni trenta, allora Rodari stesso diviene la prova che un lavoro linguistico sui processi compositivi delle parole basta da solo a creare poesia.
L’idea continua a funzionare anche a livello teorico e confluisce in una serie di appunti mai dati alle stampe fino al 1962, anno in cui per il quotidiano romano Paese sera Rodari li sistema nel Manuale per inventare storie: un prototipo ancora in lavorazione della futura Grammatica della fantasia (1973). È chiaro che la spia del surrealismo sia già nella celebre immagine contenuta nella Grammatica del sasso gettato in uno stagno, come una parola gettata nella mente, capace da sola di suscitare onde concentriche, obbligando oggetti tra loro distanti a reagire ed entrare in rapporti. Non è difficile ritrovare il Breton che nel Primo manifesto del surrealismo (1924) dichiara di vezzeggiare le parole “per lo spazio che si annettono intorno, per le loro tangenze con altre innumerevoli parole”. La tecnica di Breton della creazione di un’immagine dall’avvicinamento di due realtà lontane somiglia alla creazione del “tema fantastico” di Rodari, generato dall’accostamento strano, dalla parentela imprevedibile tra due immagini. E dal ravvicinamento di due termini, scrive Breton, nasce una particolare luce dell’immagine la cui bellezza dipende “dalla scintilla ottenuta”; parole del tutto simili spende Rodari a proposito del “binomio fantastico”: “non basta un polo elettrico a suscitare una scintilla, ce ne vogliono due”.
La dettatura del pensiero, la scrittura automatica, la scomposizione delle parole, la loro fortuita associazione, non sono però esperienze che Breton custodisce in privato, esse vengono declinate in una serie d’istruzioni per l’uso: “scrivi rapidamente senza un soggetto predisposto”, afferma Breton, “continua per quanto ti piacerà”, “poni una lettera qualunque, la lettera e a esempio, sempre la lettera e, e riconduci l’arbitrio imponendo questa lettera per iniziale alla parola che seguirà” e così via fino a compilare un vademecum per la composizione di un’opera surrealista.
Sebbene queste tecniche compositive non siano un’invenzione di Breton, ma un’interpretazione abbastanza fedele dei processi di funzionamento del nonsense anglosassone di Lewis Carroll ed Edward Lear, che Breton non stenta a definire suoi maestri, è invece tutta surrealista l’idea di sistemare queste tecniche per renderle accessibili, cosa che non interessa né Carroll né Lear, ma che invece è al centro del lavoro di Rodari. Le poche semplici regole del Manuale per inventare storie vengono infatti pubblicate su un quotidiano e, negli anni a venire, Rodari le andrà divulgando in molte scuole d’Italia, mettendo il pensiero teorico a disposizione della prassi di esperti e profani, di bambini e promotori della cultura dell’infanzia, della classe insegnante e degli educatori. La più importante delle idee della Fantastica, e forse la più diretta influenza del surrealismo su Rodari, la stessa che porterà alla riuscita dell’impresa Grammatica della fantasia, non è infatti che questi meccanismi compositivi siano riproducibili, ma che sia possibile comunicarli a tutti, fare delle tecniche uno strumento di educazione linguistica (e non solo) del bambino. La scoperta dell’importanza della fantasia nell’educazione porta la certezza di poter intrattenere un rapporto attivo con il mondo reale, quello che interessa al progetto utopico di Gianni Rodari: essa insegna un atteggiamento critico sul mondo e forse suggerisce che sia possibile cambiarlo. Il surrealismo è dunque per Rodari un invito squillante a diffidare della logica dominante, a liberare il pensiero dai condizionamenti, a innovare una letteratura non solo censurata e scolastica, ma rattrappita su forme linguistiche sorpassate, per nulla utili a un fattivo progetto di educazione.

– Giulia Massini

Pino Boero e Vanessa Roghi (a cura di) – Rodari A-Z
Electa, Milano 2021
Pagg. 320, € 34
ISBN 9788892820630
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