Gli ultimi giorni di Christo

Azione partecipativa, evento mediatico o banale intrattenimento. Con polemiche, critiche e ostacoli che però costruiscono un substrato melodrammatico alla sceneggiatura dell'opera. Sono molto diversificate le letture dell'intervento sul Lago d'Iseo che sin da subito è stato meta di un laico pellegrinaggio. A due giorni dalla chiusura, qualche riflessione su The Floating Piers emersa dal dialogo fra Daniele Capra e Massimo Mattioli


Massimo Mattioli
: Allora, prima cosa: Christo, tre giorni prima dell’apertura al pubblico, diceva che la sua opera era terminata. Secondo me mentiva: perché un’opera come questa si completa solo nel momento in cui il primo visitatore ci mette un piede sopra. Il lato emozionale, tattile, arrivo a dire spirituale, si attiva solo con la partecipazione. Questo aspetto destituisce tante delle critiche che si sono lette da gente che non c’è stata, o addirittura si rifiuta aprioristicamente di andarci. Trovo inutile tirare in ballo Debord, Bataille, Deleuze, standosene seduti dietro a una scrivania. L’operazione di Christo si completa soltanto con l’interazione diretta. Che ne pensi?

Daniele Capra: Condivido il fatto che questa al Lago d’Iseo sia un’opera esperienziale. Il suo significato si avvera, si compie totalmente, nell’azione del cammino da parte del pubblico. Vi sono opere che hanno senso a prescindere dalla presenza del fruitore, che esistono anche se in quel momento non ci sono occhi che se ne prendano cura, sguardi che la scrutano. The Floating Piers invece è differente perché – nel suo essere intervento ascrivibile alla land art e, per gli effetti di condizionamento sulla vita quotidiana dei cittadini, all’arte pubblica – trova le sue ragioni solo nella pratica deambulatoria dei visitatori che la calpestano. Camminare sull’acqua, inoltre, è una delle pratiche ascrivibili alla categoria dell’impossibile, particolarmente frequentata dall’onirico, o quella del miracoloso, di cui i Vangeli ci danno testimonianza. Le sovrastrutture interpretative sono invece molto meno interessanti in questo caso, tanto più perché l’opera è perfettamente intellegibile da parte di tutti coloro che la percorrono. È cioè un’opera per certi aspetti democratica, perché non abbisogna di codici per essere letta e decifrata: è alla portata di tutti, e questo evidentemente dà fastidio ai professorini che stanno nella torre d’avorio i quali, sentendosi spodestati dalla propria cattedra, preferiscono fare i bastian contrario, gli intelligenti che vanno controcorrente. Tu che idee hai avuto camminando sul pontile galleggiante?

Christo, The Floating Piers, Lago d'Iseo (foto Daniele Capra)

Christo, The Floating Piers, Lago d’Iseo (foto Daniele Capra)

MM: Ti racconto la mia esperienza, perché è funzionale a quella che poi è la mia lettura. Io ci sono salito il 16 giugno, due giorni prima dell’apertura al pubblico. Una collega, parlandone, mi disse poi che io ero stato fortunato, a poterla “praticare” quasi sgombra, solo con qualche decina di giornalisti presenti alla preview. Beh, io sono convinto che invece sia il contrario. Sono convinto che The Floating Piers esprima tutta la sua pregnanza proprio nella moltitudine, nella partecipazione a questa sorta di pellegrinaggio laico che è diretto verso il niente, ovvero verso il tutto. Escludo una significanza dell’aspetto ludico, invece rimarcato da certi osservatori superficiali. Sono convinto che davanti ad un momento di grazia, come ritengo questo evento, perdano significato le categorie (Questa è arte? È intrattenimento mascherato da arte? È business?), ma trovo straordinario che un artista riesca a mobilitare tanto pubblico, un pubblico tanto diversificato quanto a età, provenienza, estrazione sociale e culturale, promettendogli semplicemente di fare una camminata. Credo, pur non avendolo purtroppo vissuto personalmente, che la reazione collettiva sia in qualche modo avvicinabile a quella che ebbe nel 2003 The Weather Project di Olafur Eliasson alla Tate Modern a Londra: e non è un caso che i 2 progetti ruotino entrambi attorno ad un elemento, lì il sole, qui l’acqua. È evidente quindi che ha tanto successo perché riesce ad evocare livelli emozionali metafisici, che prescindono dalla contingenza: non si sale sulle passerelle – come non si entrava nella Turbine Hall – per vedere qualcosa di “bello”. Secondo te quali sono i livelli di lettura che attirano un pubblico così diversificato, ma unanimemente entusiasta?

DC: Penso che chiedersi, come hanno fatto i soliti professorini, se l’intervento di Christo sia arte o semplice evento mediatico – parola che giustamente fa venire i brividi in un paese come il nostro che tende ad essere, spesso con grave responsabilità politica e giornalistica, un eventificio che misura tutto sulla visibilità – sia del tutto fuorviante (anche se gioverebbe ricordare le polemiche in Francia in merito all’evento a tutti i costi seguite alle mostre di autori contemporanei ospitati in luoghi storici come Louvre o la reggia di Versailles). The Floating Piers è evento perché una durata limitata nel tempo, perché concentra e si oppone alla diluizione che lo scorrere della vita impone: Christo stesso programma la durata dei suoi interventi, perché non sono una mostra che garantisce al fruitore di poter scegliere tempistiche e modalità di fruizione, ma, al contrario, sono essi stessi a determinare il tempo, ad imporre al visitatore un agenda strettissima. Quindi dovremmo essere grati a Christo perché è riuscito a trasformare un’installazione ambientale in evento, per averci costretto a programmare la nostra vita chiedendoci se valesse la pena andare o meno. Quando mai ci capita che l’arte ci metta così alle strette? Per non parlare delle categorie di meraviglia e sorpresa, figlie del barocco, qui perfettamente applicabili…

Christo, The Floating Piers, Lago d'Iseo (foto Anna Mattioli)

Christo, The Floating Piers, Lago d’Iseo (foto Anna Mattioli)

MM: Indugi spesso sui critici, quelli reali o i tanti improvvisati, che scoccano strali acriticamente critici, privi dell’imprescindibile esperienza diretta. Del resto, fatico a ricordare qualcuno che abbia riaffermato le sue posizioni ostili dopo esser salito sopra a quei lunghi nastri arancioni dai quali ogni tanto balugina L’isola dei morti di Böcklin. Ma questa è una follia tutta italiana: l’autolesionismo come struttura dialettica, come fattispecie sociologica. Ci è toccato anche leggere le farneticazioni di un’associazione, tal Codacons, che lamenta il fatto che l’operazione The Floating Piers sarebbe costata alla collettività denaro necessario a rafforzare i trasporti, mi pare. Davanti a un progetto che porta in 16 giorni oltre 1 milione di persone in posti dove non andrebbe nessuno, e che alla fine avrà generato utili per qualcosa come 100 milioni di euro. E poi si lamentano queste spese di trasporti e magari di sicurezza, in un paese che ogni settimana spende molto di più per scortare i tifosi di calcio negli stadi.

DC: Senza pensare al fatto che ora in molti sono venuti a conoscenza del Lago d’Iseo, che non era certo un luogo capace di destare interesse nei più…

MM: Recentemente parlavo con Tom Rankin di Tevereterno con cui abbiamo intavolato un parallelo fra il progetto di Christo e quello romano di William Kentridge, che come tutti sanno prima di essere realizzato ha dovuto passare una serie infinita di rifiuti, dinieghi, problemi burocratici e cieche ottusità politiche e amministrative. Alla fine la mia riflessione è che questi calvari – le polemiche su Christo, i problemi per Kentridge – sono la cifra identificativa dei progetti di arte pubblica in Italia. Ne diventano parte integrante nella sceneggiatura: innestano una componente di dramma che poi entra nell’esito finale. Per paradosso ne diventano l’elemento più forte, un substrato melodrammatico unico – impensabile da avere, per esempio, in Svizzera, o in Germania, dove tutto filerebbe liscio! – che poi presenta la realizzazione finale come una sorta di liberazione, di atarassia…

Christo, The Floating Piers, Lago d'Iseo (foto Daniele Capra)

Christo, The Floating Piers, Lago d’Iseo (foto Daniele Capra)

DC: Diciamo però che esistono differenti tradizioni di arte pubblica, e che quella italiana non sarebbe propriamente la public art di tradizione anglosassone che parte piuttosto da un’analisi sulla comunità. Da noi l’intervento è calato dall’alto, come in fin dei conti sono sia Kentridge o Christo, al di là della superba mediocrità/ignoranza delle classe dirigente e dei decisori che, non possedendo gli strumenti culturali per discernere la qualità, mettono quasi sempre il bastone tra le ruote. In generale però i processi in Italia non sono percepiti da tutti perché non esiste la percezione di spazio pubblico collettivo, o di volontà collettiva in cui riconoscersi: si pensi ad esempio al fatto che le leggi sono avvertite come limite imposto dal legislatore e non come necessità in cui comunitariamente riconoscersi. Inoltre l’arte nello spazio pubblico, come racconta molto bene il recente saggio L’ossessione del visibile di Pietro Gaglianò, nella tradizione della nostra storia fatta di città e di prìncipi è una autocelebrazione del signore e insieme un regalo dell’autorità ai sudditi. La public art invece presuppone il cittadino, disposto a partecipare ai processi collettivi, a prendersi cura della comunità. Quanti ne vedi?

Daniele Capra e Massimo Mattioli

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