Arte della Maschera, rivelatrice del mondo. Un ricordo di Donato Sartori

Donato Sartori. Il suo nome resterà per sempre legato a quella straordinaria macchina scenica che è la maschera. Colpito da grave malattia, l’artista si è tolto la vita pochi giorni fa. Lo ricorda qui Cristina Grazioli.

PRELUDIO RILKIANO
Il mondo “dei Sartori” è un coloratissimo universo modulato dalla luce e dall’ombra di una grande maschera. La prima immagine che si affaccia nel tentativo di descriverlo è quella del passo di Rilke nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, dove il protagonista narrante in visita al Teatro romano di Orange si arresta di fronte alla maestosità del frons scenae, emblema parlante di una concezione del teatro perduta, un teatro-mondo e un teatro-comunità capace di parlare alla collettività un linguaggio universale, tornando a collegarla con una dimensione celeste.
Questo fronte scena, composto secondo le linee di un grande volto (“con la tenebra raccolta al centro come in una bocca”) è paragonato da Rilke a una “possente maschera antica, dietro alla quale l’universo si condensò tutto in un volto”, dove “tutto il dramma in divenire era al di là: gli Dei, il Destino”.

UNA STORIA FAMILIARE
A pochi giorni dalla sua tragica scomparsa, così penso il mondo di Donato Sartori e il suo cammino attraverso gli universi dischiusi da questo potente strumento dell’attore: un’enorme maschera attraverso la quale passa la nostra conoscenza del mondo, una soglia che rende possibile trasfigurare ogni dettaglio della vita in vigorosa creazione artistica; perché per lui concezione e lavoro sulla Maschera vanno ben al di là dell’oggetto di scena in senso stretto.
Lo scultore Amleto Sartori (1915-1962), padre di Donato, aveva reinventato negli Anni Cinquanta la maschera della Commedia dell’Arte, partecipato alla riscoperta novecentesca (reinvenzione?) di Ruzante, accanto a Zorzi, De Bosio e il Teatro dell’Università di Padova; come nella tradizione delle famiglie d’arte, aveva tenuto il figlio “a bottega” e al momento della sua prematura scomparsa gli aveva consegnato un’eredità preziosa e impegnativa, un contesto di relazioni e di collaborazioni che Donato avrebbe raccolto e alimentato: Jacques Lecoq, Jean-Louis Barrault, Eduardo De Filippo, Strehler, Dario Fo, tra gli altri.
Nel giro di poco più di un decennio le maschere dei Sartori divengono l’emblema di una tecnica ineguagliabile e di una concezione della maschera “organica” rispetto al corpo e alla voce dell’attore; ogni maschera è creata per un attore preciso, con i suoi tratti fisiognomici, deve respirare con lui; implica lo studio dell’anatomia in tutte le pieghe, della meccanica e dinamica del corpo del performer.

GLI ANNI SESSANTA E SETTANTA
Donato raccoglie con sacra dedizione questo patrimonio, ma anche con molte interrogazioni; è figlio del proprio tempo. Negli Anni Sessanta frequenta Parigi, si avvicina ai Nouveaux Réalistes, a César, è affascinato dalle macchine di Tinguely, conosce Pierre Restany: scrive il critico che Donato supera le tecniche apprese dal padre, “ne assume altre che sanno di aria e di suono, di gesto e di sociale”, non tralasciando il ferro saldato e il “meraviglioso cuoio che ormai per lui non ha più segreti”. Vive il clima politico del maggio francese e nello stesso periodo intraprende grandi viaggi che lo portano a conoscere culture lontane. Avvia così un confronto artistico e antropologico con il mondo della Maschera che non lo abbandonerà mai (Giappone, India, Indonesia, Messico, Brasile, Mozambico sono solo alcune delle tappe della sua attività di creazione e di ricerca). Allo stesso tempo s’impone l’urgenza di una relazione attiva con i fruitori del mondo dell’arte e dello spettacolo.
È sulla scorta di questo clima che negli Anni Settanta Donato inizia a estendere tecniche e spirito della Maschera a tutto quel che può catturare il suo sguardo. Nel 1975 fonda il gruppo Azionecritica, attivo in environment, happening, installazioni, azioni urbane, in contatto con le sperimentazioni sonore di Teresa Rampazzi. Lo sguardo di Donato è lucido: a seguito dell’esperienza di Cavart (una collettiva in una cava abbandonata dei Colli Euganei) esprime la sua delusione di fronte alla velleità di esprimere il nuovo, mentre si tratta di “un’iniziativa obsoleta che al posto di una galleria civica aveva preferito uno spazio-altro, racchiuso tra le falde di un monte”. Lo arrovella la necessità di creare un amalgama tra le opere esposte. Osservando la protezione trasparente dei filari delle viti in campagna, nasce l’idea di avviluppare la cava di una ragnatela fluttuante che avvolge cose e persone: disapprovazione degli artisti, che vedono compromessa la visibilità delle singole opere. Come la maschera chiede all’attore di spostare il proprio centro dal volto, emblema dell’ego, al corpo, così le ragnatele rispondono all’urgenza di fare emergere uno spirito organico e collettivo.

Mascheramento urbano, Donato Sartori e Centro Maschere e strutture gestuali, Reims, Place Royale, 1983 ©Archivio Sartori

Mascheramento urbano, Donato Sartori e Centro Maschere e strutture gestuali, Reims, Place Royale, 1983 ©Archivio Sartori

GLI ANNI OTTANTA E UN MUSEO UNICO
L’esperienza ha in germe i tanti Mascheramenti urbani seguiti dagli Anni Ottanta a oggi: tessiture fluide e modificabili che avvolgono edifici e grandi piazze inglobando al loro interno i fruitori, trasfigurando volti e il volto dello spazio pubblico.
Tra i numerosissimi momenti importanti dell’arte di Donato Sartori, questo snodo ci sembra decisivo. La maschera aderisce al volto e al corpo dell’attore come l’arte aderisce al mondo. Non si tratta della ripetizione di una pratica in un contesto diverso, ma della capacità di tradurre la visione dell’artista in una concezione totalizzante, in azione di ampio respiro. Questa apertura segna tutta l’attività di Donato: di artista, studioso, docente.
Nel 1979 fonda il Centro Maschere e Strutture gestuali, insieme a Paola Piizzi, architetto, amorosa sodale nell’arte e nella vita, e allo scenografo Paolo Trombetta: qui approfondisce il patrimonio delle tecniche e lo forgia reinventando non solo le forme, ma le poetiche della maschera.
L’incessante ricerca si sposa ad una strenua difesa della tradizione: nel 2004 i Sartori aprono il Museo della Maschera ad Abano Terme, dove le maschere rinascono continuamente grazie alle attività di studio e di sperimentazione in una serie di seminari internazionali frequentati da artisti di tutto il mondo. A partire dal 2002, chiamati da Umberto Artioli, Donato e Paola tengono laboratori per gli studenti del Dams dell’Università di Padova, offrendo a tanti studenti la possibilità di confrontarsi con la “Mascherologia”: a partire dal calco del proprio volto nello spazio carico di storia e di mestiere dell’atelier del Centro Maschere e Strutture Gestuali.
Un patrimonio immenso, generosamente elargito. A tutti noi, studiosi e allievi, il compito di garantirne la vitale continuità, imparando a cogliere tutto quel che dell’attore e del mondo la Maschera, anziché nascondere, rivela.

Cristina Grazioli

www.sartorimaskmuseum.it

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