Abbiamo davvero bisogno del MiBACT?
In un recente articolo su un noto quotidiano, Salvatore Settis ha affermato che tra qualche anno il MiBACT potrebbe non avere più motivo di esistere. Ma forse il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo già da tempo manca di una raison d’être. Almeno così la pensa Stefano Monti. Ecco per quali ragioni.
Probabilmente il MiBACT – Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, già da tempo, manca di una raison d’être. Può sembrare una sentenza sommaria, ma è una riflessione tutt’altro che improvvisata: si tratta piuttosto del risultato di un’analisi che valuta la concreta utilità di un dicastero statale dedicato alla cultura e alle attività culturali (e al turismo), sulla base di un rapido confronto tra risultati raggiunti attraverso le azioni riconducibili alle attività ministeriali e i costi che il mantenimento della struttura richiede ai cittadini.
Al centro della riflessione infatti non c’è semplicemente una logica binaria (presenza del ministero, assenza di un intervento pubblico nel settore), ma una logica di trade-off. Vale a dire: quali sono i risultati ottenuti negli ultimi anni dal Ministero dei Beni Culturali “che non sarebbero stati raggiunti attraverso l’azione di altri ministeri”?
Perché il problema reale è proprio questo: il mantenimento di un ministero implica costi per il personale, per le strutture amministrative, per le sedi ecc. ecc.
È da questa premessa che bisogna avviare la riflessione: l’efficacia delle azioni del ministero dovrebbe essere tale da dover giustificare il costo che il mantenimento di questa struttura implica.
POLITICHE FISCALI E MUSEI
Negli ultimi anni sono state introdotte alcune riforme, sedicenti sostanziali, all’interno delle attività culturali: l’Artbonus, ad esempio, che intende favorire il mecenatismo privato, o la nuova disciplina fiscale della cinematografia.
Queste riforme di certo non necessitano di un ministero apposito: se all’interno del Ministero delle Finanze ci fosse una sezione che si occupa di individuare discipline fiscali ed economiche volte alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale e alla promozione della nostra produzione culturale, probabilmente queste discipline avrebbero avuto anche una maggior coerenza economica, e quindi una maggior efficacia di implementazione.
Per quanto riguarda il versante museale, la distribuzione “a pioggia” delle risorse, da tutti giudicata poco efficace sul versante culturale ed economico, non necessita di grandi competenze “culturali”, anzi; si può dire che un manager o un contabile avrebbero forse introdotto dei criteri più equi e meritocratici, cercando di creare una sana “concorrenziale” spinta verso migliori performance e migliori livelli di comunicazione da parte dei singoli istituti museali.
LA QUESTIONE DEL MERCATO
Per quanto concerne invece il mercato artistico, c’è un dato che riesce a esprimere al meglio la nostra situazione attuale: l’Italia, in quanto sistema-Paese, conta nello scenario internazionale meno di quanto contino i nostri artisti (con domicili ovviamente fuori dallo Stivale), ma c’è anche di meglio, ed è il fatto che il vero mercato dell’arte italiana non è in Italia ma all’estero. Non ci si illuda: con questo non si intende affatto sostenere che l’Italia è un Paese esportatore di arte e di cultura, anzi; quello che qui si intende sottolineare è che opere d’arte di provenienza italiana sono oggetto di ben rinomate Italian Sales (in Inghilterra così come in altre importanti piazze del mercato dell’arte) mentre il nostro mercato è talmente poco attraente che sono anni che le nostre case d’asta hanno difficoltà a trovare un loro concreto mercato di riferimento.
L’arte italiana la comprano all’estero, forse, anche gli stessi italiani, perché così possono, attraverso il meccanismo della momentanea importazione, eludere le eccessive e spesso ritenute arbitrarie regole dell’istituto conservativo della notifica, la cui istituzione risale ad epoca fascista ma che non è stato mai smentito da allora.
QUANDO IL MIBACT CREDE DI ESSERE IL MINISTERO DELLE FINANZE
Per quale motivo è dunque necessario un ministero? Quali sono le riforme che non avremmo avuto se al posto di un intero ministero ci fosse stata una task force di persone competenti (archeologi, storici dell’arte, esperti di cinematografia, manager della cultura ecc.) a guidare le scelte in termini di politiche pubbliche culturali?
In fondo, le politiche culturali avviate negli ultimi anni sono state più influenzate da esigenze di bilancio dello Stato (taglio ai Fus, fiscalità agevolate per il Cinema, Film Commission ecc.) che da una linea di produzione “culturale”. Ciò che fa sorridere, ma è un sorriso amaro, è che in tutti i corsi di management si tende a precisare che l’economicità non è un obiettivo ma è uno strumento: lo strumento attraverso il quale l’organizzazione che si è chiamati a dirigere possa esprimere al meglio il proprio potenziale. Per fare ciò è necessario avere una chiara idea strategica del mercato in cui essa opera e delle potenzialità che tale organizzazione possiede.
STALLO ALLA MESSICANA
Per essere più chiari, la situazione è più o meno questa: c’è un ministero, in larga parte composto da architetti, urbanisti e storici dell’arte. Questo ministero ha preso negli ultimi anni decisioni di tipo economico-fiscale, ignorando completamente le linee produttive della cultura del nostro Paese, che sono state invece recepite (start-up, reti di imprese ecc.) dal Ministero delle Economie e delle Finanze. Nel frattempo il nostro Paese perde credibilità culturale, con una penuria di capitali che tiene all’amo imprese e terzo settore; a tale penuria hanno risposto negli ultimi anni le Fondazioni (anche qui secondo un principio di “consenso” più che di linea produttiva strategica).
Roberto Cecchi, nel suo recente Abecedario, riesce a dimostrare con implacabile chiarezza il risultato di questo stallo alla messicana: “Degli 1,6 miliardi di costo dell’amministrazione [del MiBACT], che nelle previsioni 2013 vale lo 0,22% dell’intera spesa dello Stato, i fondi destinati a scopi diversi da quelli per il personale sono solo 500 milioni, che a loro volta vanno divisi tra i 400 milioni per il Fondo Unico per lo Spettacolo e poco più di 100 milioni di Euro per i beni culturali”.
E allora la domanda è semplice e inequivocabile: siamo proprio sicuri che le azioni del MiBACT valgano 1,1 miliardi di euro annui? Siamo proprio sicuri che non sarebbe meglio, per il bene della cultura italiana, che questi fondi venissero desinati a chi la cultura la realizza?
Stefano Monti
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