Sul XXI secolo (IV). Di esoscheletri e amebe

Terza puntata della serie dedicata dalla rubrica Inpratica al XXI secolo, che è nostro solo in parte. E qui si parla, si prende spunto, dalla Stazione Termini di Roma. E da un bar dove il cappuccino lo prendono i bambini cinesi insieme alle loro madri.

Che cosa è cambiato?
L’esoscheletro che reggeva le cose, i pensieri, le società, i comportamenti e le congiunture è andato a farsi benedire – è stato fatto secco. Al suo posto, una specie di ameba, totalmente orizzontale, che guizza e si espande e si contrae. I cambiamenti sono frutto di una proliferazione, e non di un percorso lineare, diritto.
Il XXI secolo è un mutaforma.
A me per esempio piace moltissimo la Stazione Termini – certo, la facciata, ma soprattutto vista di lato, con quella successione lunghissima di archi a tutto sesto puliti puliti, che prosegue scendendo e inoltrandosi nella Chinatown romana. Stamattina, come sempre più spesso accade, la pulizia era corrosa dal grigio onnipresente e dalla plastica arancione che ricopre le misteriose impalcature metallizzate, desolate, apparentemente prive di scopo. Questi aggeggi sono montati sulla pensilina della stazione, e formano con essa un tutt’uno organico.
Nel bar sorvegliato da un anziano cameriere che ti regala un “dottò” – con ogni probabilità perché hai l’abito blu e il cappotto, e anche più probabilmente perché non lo nega quasi a nessuno, se non proprio agli sfaccendati che girano qui intorno – i ragazzini cinesi con lo zaino, pronti a andare a scuola, fanno colazione con la madre; è una scena normale e al tempo stesso aliena, così come il cappuccio del più grande dotato di mascherina e enormi lenti da insetto – come quello che indossava Beppe Grillo un anno fa sulla spiaggia ligure.

Stazione di Roma Termini, 2016 (esterno)

Stazione di Roma Termini, 2016 (esterno)

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Le intelligenze scoppiettanti non sono granché apprezzate in questo XXI secolo che si inoltra – ma possono ancora fare del bene, o del male (a seconda dei casi).

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La costruzione della nuova Stazione Termini fu decisa negli Anni Trenta, più ampia e funzionale rispetto alla precedente: nel 1946 il progetto di Angiolo Mazzoni, approvato nel 1939 e la cui costruzione era stata interrotta nel 1943, venne riconfigurato radicalmente. Il concorso vinto dagli architetti Leo Carlini ed Eugenio Montuori dette origine al nuovo edificio frontale caratterizzato dalla sinuosa pensilina in cemento armato soprannominata “il Dinosauro” che divenne immediatamente, a partire dalla sua inaugurazione (20 dicembre 1950) un luogo identitario di Roma, insieme alla gigantesca lampada Osram (in seguito smantellata).
All’interno, sotto il Dinosauro, si sviluppa tutta una serie di ingombri e concrezioni, sistemate piuttosto a casaccio: enormi cartelloni che pendono, negozi come scatole di giocattoli abbarbicate l’una sull’altra che oscurano i lastroni di vetro e la luce del sole, immagini accalcate e accavallate e sovrapposte (immagini inutili), scatole con loghi e scatoloni trasparenti in fila, la struttura si disperde e si elide sommersa da questo profluvio di contenitori commerciali. Il Cretto Nero di Burri diventa uno spunto di decorazione innocua per un bar che vuole darsi delle arie: una parete nera che vuole essere sofisticata, dietro tavoli sempre affollati e lampadari troppo forti.

Stazione di Roma Termini, 2016, oggi (interno)

Stazione di Roma Termini, 2016, oggi (interno)

Per far fronte a uno scenario del genere (che è anche immaginario collettivo: la forma che assume, giorno per giorno, la vita comune e individuale; la griglia sfrangiata, lo schema slabbrato che impatta su gesti e attitudini), le opere significative del XXI secolo scavano altre attitudini, rivali. Opere che per costituzione non sono propriamente tali – piuttosto, elementi che all’interno della mostra compongono una narrazione, un mood, un’atmosfera. Segnano, cioè, una temperatura. Sono oggetti al di sopra e al di sotto, al di là e al di qua dell’opera d’arte: provano a sfuggire al proprio statuto (tradizionale?), e anche al proprio tempo. Possiedono una natura mobile, mutevole, transitoria, e volentieri tendono alla condizione di “non-più-opere”; sono piuttosto stati. (Uno stare come, gravemente implicato nel rumore bianco dell’esistenza, con tutte le sue imperfezioni e tare – e non più ipoteticamente e ipocritamente fuori da esso.) Sistemi costruiti dall’artista per preservare un “sentimento” indefinito e sfuggente; strutture labili, animate da una forma di leggerezza pachidermica.

Robert Rauschenberg, Tampa Clay Piece #4, 1972

Robert Rauschenberg, Tampa Clay Piece #4, 1972

Opere che funzionano come annunci. Prefigurazioni pulviscolari e disperse di una situazione di là da venire, e già presente – in modo frammentario, disperso, disunito, disintegrato, embrionale – in questo tempo che non smette di iniziare. “Non si può imbrogliare l’entropia. La degradazione dell’informazione a cui il DNA viene sottoposto col passare del tempo non è completamente reversibile. Nonostante il lavoro dei chip al carbonio, gli errori continuano ad accumularsi. E il corpo, obbediente, alla fine getta la spugna” (Paul Di Filippo, Stone è vivo (1985), in Mirrorshades, a cura di Bruce Sterling, Mondadori 2003, p. 293).

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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