Arte urbana e spazio visivo. Una lunga contesa

La composizione del paesaggio delle nostre città è tangibile espressione di un’era sempre più permeata dall’immagine e dal simulacro. Nell’odierna selva iconica urbana, alla street art dovrebbe essere assegnato il compito di distinguersi dal frivolo frastuono visivo in cui siamo immersi giornalmente, attraverso qualità e contenuti. Eppure, non va sempre così. Ecco perché l’arte urbana rischia di smarrire se stessa nella decisiva contesa dello spazio visuale.

L’ICONOSFERA URBANA
Quella che stiamo vivendo è indubbiamente un’epoca iconica, una fase storica che gravita attorno alla sfera dell’immagine, divenuta metro del prestigio e del potere sociale.
Guy Debord, padre del movimento situazionista europeo, proclamava, già nel 1967, la nascita della società dello spettacolo, in cui veniva registrato il trionfo dell’apparenza sul contenuto. Alcuni anni dopo un altro francese, Marc Augé, avrebbe proseguito il discorso parlando di “finzionalizzazione del mondo”: una dimensione in cui la realtà concreta dell’esistenza viene costantemente presa di mira dalla finzione mediatica.
L’ossessione dell’apparire più vero del vero e la colonizzazione dei media nel nostro immaginario hanno rotto le barriere di separazione tra il campo del sogno, quello della realtà e della finzione, che sembrano oramai divenire indistinguibili, e tale “impero del simulacro” prende forma ed è animato dal parossismo di immagini a cui siamo sottoposti giornalmente.
Le città in cui viviamo sono sempre più visual, un enorme flusso di formule iconiche e aniconiche pervade la nostra percezione dell’habitat urbano: megaschermi illuminati e manifesti pubblicitari, insegne di negozi e indicazioni stradali, locandine di eventi, vetrine e una moltitudine di segni sui muri.
In questa iconosfera urbana vigono regole non sempre chiare, anzi spesso contraddittorie e non immediatamente comprensibili, ragion per cui sovrapposizioni e “guerriglie” per la conquista dello spazio vitale sono frequenti, e si accompagnano alla scarsissima educazione all’immagine da parte dei destinatari di questo coacervo iconico.

IL RUOLO DI GRAFFITI E STREET ART NELLO SPAZIO VISUALE
All’interno delle dinamiche comunicative che passano dall’ambiente stradale e parietale, l’arte urbana, nutrendosi dell’iper-informazione visiva della città e rielaborandola in un continuo remix di forma e contenuto, appropriazione linguistica e ribaltamento semantico, si erge a competere con la pubblicità e con le altre manifestazioni che fanno parte del regime visuale imposto e dominante nello spazio pubblico.
Il suo obiettivo, quale forma di cittadinanza consapevole, è quello di considerare criticamente questa tendenza, proponendo una visione differente, che possa essere rappresentativa dell’intera comunità urbana.

José Fernandez Rios, Estepona (Spagna), 2014

José Fernandez Rios, Estepona (Spagna), 2014

HA PIÙ SENSO PARLARE DI “DECORO URBANO”?
Considerato tale quadro, il vecchio concetto di “decoro urbano” sembra aver perduto significati e un solido sistema di riferimento. Ragionando in termini estetici, se l’installazione di enormi pannelli pubblicitari (billboard) risulta, così com’è, perfettamente legale, il senso di decoro si svuota immediatamente della sua ragion propria e appare un’espressione per lo più strumentale.
La verità è che un muro completamente bianco sarebbe poco rappresentativo della metropoli contemporanea, della sua velocità e delle sue contraddizioni, della sua continua frammentazione in realtà diverse e lontane. Il grande tema, semmai, è riuscire a delineare una diversa percezione degli spazi cittadini, trovando quella raffigurabilità che manca nella mente degli abitanti. Se il portato dell’iconicità pubblicitaria è quello di confondere i confini tra reale e fittizio, l’arte urbana ritorna a ragionare con forza sulla concretezza del vivere e del vissuto, apporta quella “rivoluzione estetica del quotidiano” che significa costruzione di un nuovo percorso di manifestazione visiva ed educazione all’immagine nell’ecosistema metropolitano, e opera, o almeno dovrebbe, sul fronte della sacralizzazione del luogo.

IL VENIR MENO DELL’ATTITUDINE POLITICA
Il nodo da sciogliere, oggi, in seno alla galassia “street art” riguarda il rilassamento della funzione critica e politica nello scenario visuale; ciò non significa manifestare un’idea politica occupando uno spazio, bensì avere un’attitudine politica finalizzata allo spazio. Viene meno, di conseguenza, il suo ruolo di marcatore d’identità, baluardo dello spirito dei luoghi e delle loro comunità – declinazione, quest’ultima, che costituisce una progressione rispetto alla fase di contestazione del monopolio visuale imposto e che, ormai eccessivamente saturo il paesaggio, gli si dovrebbe preferire.
Nell’era del tripudio dei “non luoghi” di Augé, la street art è un potente agente di ri-sentimentalizzazione di territori obliati: la sua forza sta proprio nel respingere un’eccessiva ricerca sul significante e significato dell’oggetto per abbracciare lo spazio pubblico, indagandolo piuttosto che sul volto fisico, quale mero supporto, su quello simbolico, come fine. Venuta meno questa condotta, scema il valore dell’operazione artistica.
Tuttavia, è sempre più comune la formazione di “ghetti” art-chic nei quartieri più difficili, o di veri e propri luna-park di immagini – tra tutti i possibili valga l’esempio di Wynwood a Miami – dove a sovrapporsi sono molteplici interessi che trascendono la pur minima considerazione della profondità del contesto, tant’è che risultano facilmente penetrabili da operazioni speculative e ruspanti processi di gentrification.
È indubbio come talvolta sia l’avvicinarsi ad ambienti meno alternativi e più canonici – quel tanto rimproverato “imborghesimento” – a provocare un depotenziamento del grado di responsabilità spaziale. Ma non è l’avvicinamento in sé a essere negativo, quanto la strumentalizzazione che ne viene fatta; si può fare arte urbana, o meglio arte dei luoghi, anche, e soprattutto, con i soldi di gallerie e amministrazioni.

MTO, The death of the neighborhood, Wynwood-Miami, 2014

MTO, The death of the neighborhood, Wynwood-Miami, 2014

STREET BILLBOARD ART
Tra le deformazioni dell’autenticità dell’arte di strada si annovera quella che Ulrich Blanché ha definito “street flavored art”: un’arte “da interni” resa più trasgressiva da un aroma stradale posticcio. Ben peggiore, in quanto gravata dell’onere d’instaurarsi nello spazio pubblico urbano, è l’irradiazione di quella che possiamo apostrofare “street billboard art” – non come appropriazione artistica di una superficie pubblicitaria, al contrario quale cedimento dell’arte stessa a mere logiche promozionali –, ovvero grandi cartelloni pubblicitari mascherati da dipinti murali. Interventi realizzati come réclame di mostre ed eventi, per surreali operazioni di “riqualificazione” o, banalmente, per fare del facile marketing virale, dove l’onda mediatica creata e i consensi ricevuti sono tristemente commisurati alla mortificazione del luogo quale semplicistica dimensione spaziale. La deriva muralista degli ultimi anni ne vanta una produzione in continua crescita: servirebbe, allora, spostare l’indice dell’attenzione non sulle modalità, legale o illegale, commissionata o non commissionata, ma sulle potenzialità dei contenuti in concordanza all’ambiente di riferimento.

IL GRANDE RISCHIO
Ebbene, il pericolo più importante che corriamo oggi non sono tanto gli “stacchi” (si veda la polemica a Bologna) – rimanendo ferma la condanna ad ogni operazione di tipo speculativo – quanto l’occupazione spiritualmente abusiva, sebbene giuridicamente legale, dello spazio urbano, con la quale si va assottigliando il confine tra arte e pubblicità. In fondo è sempre preferibile avere nei musei muri decontestualizzati ma belli, piuttosto che nelle strade surrogati pseudo-artistici.
Questo è lo scoglio in cui possiamo incagliarci nella grande sfida di riformulazione, estetica e comunicativa, della dimensione visuale delle nostre città; sfida innescata come una battaglia frontale dai graffiti e dalle pratiche di subvertising, portata successivamente su un piano più meditato e costruttivo dalla cosiddetta “street art”, e che ora non possiamo permetterci di perdere sotto l’azione del suo stesso tradimento.

Egidio Emiliano Bianco

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Egidio Emiliano Bianco

Egidio Emiliano Bianco

Egidio Emiliano Bianco (Milano, 1988) è neolaureato in Economia e Gestione dei Beni Culturali presso l’Università Cattolica di Milano. Voracemente appassionato di ogni forma artistica, dagli avori medievali ai tappeti persiani, ha un occhio di riguardo verso le tendenze del…

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