Errare è umano? L’editoriale di Marco Senaldi
Avete presente quella sequenza alfanumerica che dovete digitare dopo aver inserito un commento o fatto una registrazione online? Ecco, quello si chiama captcha e serve a… stabilire se siete essere umani. Vi pare sensato? Marco Senaldi la pensa così.
La richiesta del sito, messa così, pare un po’ ridicola, per non dire che suona del tutto idiota. Se per riconoscere un “umano” bastasse fargli digitare un captcha saremmo messi benissimo – ma il test resta un tantino generico perché, anche una volta capito che si tratta di un essere cosciente, il problema sarebbe fargli subito un altro test per capire se è un hacker o un ammiratore, un amico o un serial killer.
Ma il sorriso sollevato dalla domanda dello schermo si spegne rapidamente di fronte alla recente notizia che effettivamente gli automi sono già tra di noi: tra gli esempi più recenti c’è il software brevettato dalla Automated Insight, che è capace di generare migliaia di articoli personalizzati “nel tempo in cui voi ne scrivete uno”. Wordsmith è una “piattaforma di scrittura”, modulabile secondo le proprie esigenze, in grado di usare analisi qualitative, enormi insiemi di dati e di tradurli in “human friendly prose”, ossia in linguaggio naturale. Siccome Automated Insight non è l’unica company che si sta occupando della cosa (esistono anche altre compagnie come Yseop o Narrative Science) si è cominciato a parlare di Natural Language Generation Industry e, dal momento che la Associated Press ha annunciato di voler impiegare software come Wordsmith, sui media è apparso il neologismo di “robot journalism”.
Naturalmente, manco a dirlo, le intenzioni sono buone, anzi ottime: l’idea è di lasciare alle macchine il lavoro “sporco” (la comparazione di migliaia di dati) e ai giornalisti il lavoro giornalistico – cioè creare le opinioni, proporre riflessioni, fare inchieste interessanti…
Perfetto, certo, eppure c’è qualcosa in questo resoconto che lascia perplessi. Una delle migliori giustificazioni ideologiche per l’adozione di una nuova soglia di automazione – e non solo a partire dall’era dei computer, ma a cominciare dall’introduzione delle prime macchine agli albori dell’era industriale – è sempre stata la stessa: le macchine faranno il lavoro sporco, quello “disumano”, mentre noi, gli “umani”, potremo finalmente dedicarci alle attività superiori, quelle che ci caratterizzano come tali: la letteratura, la poesia, l’arte, la creatività, l’invenzione e il miglioramento della nostra vita…
Ma questa “narrazione” lascia in ombra il fatto centrale che il lavoro sporco non è che l’altra faccia, ineliminabile, di quello “pulito” – e che quest’ultimo non potrebbe nemmeno essere concepito senza quell’altro. Nel caso delle nuove tecnologie, poi, questo legame “obverso” è quanto mai stridente. Il miliardo di articoli che a quanto pare Wordsmith è in grado di generare automaticamente in pochi mesi non è affatto estraneo a queste vicende: a sua volta, è la parte “pulita” del lavoro sporco di migliaia di coprocessori che ronzano instancabilmente processando impulsi elettrici, che, a loro volta, sono la faccia pulita, tecnologicamente accettabile, dello sfruttamento delle materie prime necessari per costruirli, come il famigerato coltan. Anche se il nome di questo minerale e delle atroci vicende di guerra, sfruttamento e violenza ad esso collegate riemergono sempre sporadicamente e per frammenti, il collegamento con l’impiego delle tecnologie smart di cui facciamo uso quotidianamente (anche ora mentre scrivo e voi leggete) è invece costante, ininterrotto e persistente.
Un indimenticabile ritratto filmico dell’estrazione del coltan, Gravesend (2007), forse una delle opere più belle della carriera di Steve McQueen, dimostra da solo che sarebbe proprio su queste contraddizioni che un “umano” dovrebbe riflettere – per non passare, come accade sovente, per un “umanoide”.
testo e screenshot di Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #28
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