Su volontariato e sfruttamento. L’editoriale di Stefano Monti

Dove sta il confine fra volontariato e sfruttamento? Se ad esempio qualcuno vi offrisse 1.000 euro al mese, lordi, senza rimborsi per vitto e alloggio, senza una ragionevole possibilità di essere assunti, come definireste la proposta? Se poi a farla è il Ministero della Cultura…

UNA DOMANDA SENZA OFFERTA
In Economia si studia che il terzo settore è spesso indicatore di una domanda della popolazione civile di servizi che non sono erogati né dagli attori pubblici né da quelli privati. Se questo è vero, allora lo stato dell’offerta culturale in Italia è veramente ancora troppo basso rispetto a quanto si vorrebbe. Guardando soltanto al numero di individui che nel 2012 esercitavano attività di volontariato nei settori culturali (più di 800mila secondo gli “Stati Generali del Volontariato Culturale), appare chiaro che c’è un cortocircuito nella catena del valore culturale.
Fin qui nulla di nuovo, tutti sappiamo che senza il generoso contributo di uomini e donne che prestano il proprio tempo e le proprie risorse (materiali, immateriali) avremmo molti meno servizi culturali (a cominciare dagli spettacoli teatrali fino ad arrivare alle visite ai musei). Ma perché un individuo sceglie di fare volontariato? È questa la domanda su cui ci vorremmo concentrare, perché è in essa che si nascondono le differenze tra quello che viene chiamato volontariato e quello che invece andrebbe etichettato come sfruttamento.

VOLONTARIATO: LEGGE E SENSO COMUNE
In Italia, la legge 266/1991 sancisce che “per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”.
Questo che cosa vuol dire? Che il volontariato è quello che viene svolto fuori dall’orario di lavoro, con il solo scopo di fornire alla collettività un bene o un servizio. Gli utilitaristi convinti diranno che la retribuzione in tema di volontariato non è economica ma intima e personale. Ed è vero. Chi svolge attività di volontariato lo fa perché è sua intenzione “fare qualcosa” per la collettività, traendone al contempo non solo soddisfazione, ma anche accumulando conoscenze (personali e/o know-how).
Ma c’è di più. Perché se questa è la definizione data dalla legge, il senso comune ne attribuisce anche altri significati a questo fenomeno, e vale a dire: “Prestazione volontaria di lavoro, gratuita o semigratuita, fatta al fine di acquisire la pratica necessaria allo svolgimento di un’attività professionale o di un lavoro, e il relativo titolo di riconoscimento. In particolare, l’attività e il servizio che si prestava come assistente volontario presso università e istituti di istruzione universitaria (fino al 1975), o presso gli ospedali”. (Dizionario Treccani)
Qui il do ut des è molto più esplicito: il volontario è colui che fa pratica, per acquisire le competenze necessarie per poter svolgere poi a livello “professionale” (e quindi remunerato) una serie di funzioni che richiedono grandi competenze teoriche e pratiche.

Pompei

Pompei

FRA DEVOZIONE E INVESTIMENTO
Oggi non è più possibile lavorare “gratuitamente” se non nei casi previsti dalla legge, ma l’uso del termine (e del fenomeno che descrive) è rimasto invariato.
Nei fatti, insomma, le due forme di volontariato esistono ancora oggi: l’individuo che terminata la propria giornata di lavoro decide di dedicare il proprio tempo e le proprie competenze a favore di una causa che gli sta a cuore; e il volontario tirocinante, che è colui che decide (con o senza compenso) di prestare il proprio lavoro per un’organizzazione, un’azienda, un dipartimento accademico, un professore o un politico, al fine di acquisire quelle competenze che gli mancano per poter poi accedere a pieno titolo nel mondo del lavoro.
Se per la prima non c’è assolutamente il rischio di sfruttamento, è la seconda che deve essere osservata con più attenzione. E la sottile, a volte quasi invisibile, distinzione tra sfruttamento e volontariato è tutta in una parola: “opportunità”.
Per dirla fuor di metafora: se un individuo decide di prestare il proprio lavoro gratuitamente presso un qualsiasi soggetto e/o organizzazione, lo fa a fronte delle opportunità che quel lavoro può offrire successivamente. E qui la forbice si divide tra chi quelle opportunità le offre davvero e chi, invece, le evoca, le proietta, le lascia soltanto immaginare senza, in fondo, restituire nulla.

La sede MiBACT in via del Collegio Romano

La sede MiBACT in via del Collegio Romano

MILLE EURO. LORDI
Il progetto Mille Giovani per la Cultura, in cui i giovani sono gli under 29 (a 28 anni bisognerebbe forse sperare in opportunità diverse dal Mibact), offre quest’anno a 130 individui delle borse di tirocinio a 1000 euro al mese da svolgere presso determinate sedi (Pompei ed Ercolano, Biblioteca Nazionale di Roma e Firenze ecc.)
Queste borse, sulla cui puntuale erogazione i precedenti partecipanti avrebbero molto da dire, non rappresentano l’opportunità che vorrebbero. Con i limiti di assunzione che regolano gli enti pubblici, la concreta possibilità che un tirocinio si trasformi in un contratto di lavoro normato è veramente bassa. Certo, a differenza di molti altri tirocini questo è pagato: ma pagare 1000 euro lordi al mese per andare a vivere a Pompei vuol dire far pagare un affitto, spese, trasporti ecc.
Se il meccanismo avesse previsto anche centri di eccellenza privati, magari selezionati tra coloro che mostrano la maggior propensione all’assunzione sui dati Banca d’Italia, probabilmente il meccanismo sarebbe stato più convincente, per due ordini di ragioni: i centri di eccellenza privati sono maggiormente dislocati sul territorio (con conseguente abbattimento dei costi da sostenere per il tirocinante), ma soprattutto perché così il tirocinante può essere sinceramente valutato per l’assunzione.
Senza dubbio i tirocinanti svolgeranno compiti in centri di grande prestigio che permetteranno loro di apprendere molto, ma non necessariamente più di quanto potrebbero apprendere in una PMI culturale e creativa, dove (malgrado questo sia per molti versanti il problema principale delle ICC in Italia) la piccola dimensione avrebbe richiesto una versatilità di competenze che avrebbero potuto agire su più versanti di professionalizzazione.
Da soli, quei mille euro meno le tasse e senza quasi alcuna speranza di essere assunti sembrano un po’ pochini.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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