Gli italiani, la madre, il futuro. Nanni Moretti a Cannes
"Mia madre" di Nanni Moretti è uscito nello stesso giorno in cui il Festival di Cannes ha notificato la sua line up. Alla proiezione stampa, inutile dirlo, non mancava nessuno. Insieme ai film di Sorrentino e Garrone, di cui in questi giorni sono circolati i primi trailer, compone la tripletta italiana in concorso sulla Croisette.
Mia madre – 13esimo lungometraggio del regista tanto amato dalla sinistra radical chic – è onesto e ispirato, più simile alle prime opere della carriera di Nanni Moretti. In un’insolita asciuttezza espressiva, priva di retorica, coglie la vita reale nell’attimo astratto in cui emerge la coscienza. Coscienza del regista, del suo alter ego, dell’Italia, di un essere umano al di là del luogo e del tempo. La scelta intelligente e sensibile di optare per l’attrice Margherita Buy, che con lui aveva già lavorato in diverse occasioni e che qui offre una convincente interpretazione, funziona sia dal punto di vista delle sinergie che da quello costruttivo e politico, ed è una dichiarazione d’intenti che supera le banalità di genere.
Attorno a questa donna si alterna la struttura narrativa che gioca su tre piani: c’è la storia simbolica dell’occupazione di una fabbrica, c’è quella di un film che si sta girando sulla storia della fabbrica, c’è quella della madre della protagonista che sta morendo.
Elegante nella sua semplicità estetica, immediato, di spessore, lucido e onirico, ambientato sullo sfondo di una Roma che è quella che vedono i romani coi loro occhi, agli antipodi delle cartolinesche panoramiche sorrentiniane che tanto piacciono agli stranieri, soprattutto agli americani. Qui loro sono rappresentati dall’attore che arriva per interpretare il ruolo principale del film di Margherita (John Turturro), il nuovo padrone della fabbrica. Mitomane, revisionista e con la memoria corta, canta la Roma dell’immaginario collettivo, cristallizzata agli Anni Sessanta. È lui a fare da contrappunto comico alla tensione drammatica con un risultato armonico, composto e minimalista, esaltato dall’uso della colonna sonora non originale composta di brani di Arvo Pärt, Philip Glass e Ólafur Arnalds.
Nel gioco degli specchi (e delle riflessioni) Moretti non risparmia nessuno: la sua metafora interpretata dalla Buy, il se stesso vero ridotto a spalla “accanto al personaggio”, gli operai che hanno ridotto gli ideali a un atteggiamento meccanico. Calati in una realtà capitalista e frivola dove il minimo comun denominatore è qualche finto dettaglio estetico, anche loro sono il prodotto di una fabbrica di stereotipi, alienati dalla realtà.
Moretti usa una madre simbolica per dare il senso della continuità del tempo e della storia che progredisce. Il senso della vita, frutto di fatica e conquiste, è il riscatto che può avvenire solo attraverso l’umanità perduta. Attraverso uno scambio diretto e tattile di esperienze fra le persone, fatto di gratitudine, della disposizione a dare e ricevere, basato sulla forza del confronto e di un atteggiamento critico ma costruttivo. Mia madre ha il fascino delle fiabe orali, una volta tramandate di padre in figlio, quelle a cui ognuno toglieva un particolare per aggiungerne un altro più personale e pertinente al contesto storico e sociale. Contro la sterilità dei tempi moderni, c’è la riscoperta del sentimento fra le persone.
Si tratta di un film davvero attuale che analizza in chiave intimista un’esigenza storica, per risolverla col ritorno alle origini. Se nel passato c’è il nostro domani, i legami affettivi sono l’unica possibilità evolutiva.
Federica Polidoro
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