Il comportamento degli oggetti. Intervista a Marie-Ange Brayer, senior curator al Pompidou

La neo-eletta senior curator del dipartimento di design e prospettiva industriale del Centre Pompidou evoca la collezione e la programmazione del museo parigino. A favore di una purezza interdisciplinare e interattiva. Artribune l’ha intervistata.

Dal 1996 al 2014 sei stata direttrice del Frac Centre di Orleans, dove la collezione è studiata per evidenziare uno scambio diretto tra l’arte, il design e l’architettura. Come sono cambiati i suoi obiettivi nel tempo? E nell’arco di due decadi come si è evoluto il dialogo tra l’arte contemporanea, il design e l’architettura?
Gli obiettivi della collezione del Frac Centre riguardavano lo sviluppo di una collezione all’insegna della sperimentazione architettonica, con l’intenzione di stabilire delle connessioni tra i diversi campi della creazione: arte, design e architettura. Questa collezione ad oggi è scandita da alcuni momenti storici forti: l’architettura radicale degli anni Sessanta e Settanta e la dimensione concettuale dei progetti che raccolgono varie discipline. Archizoom e Superstudio in Italia; Archigram in Inghilterra; nonché Haus-Rucker-co e Coop Himmelb(l)au in Austria. Nella mostra che viene considerata il faro per il movimento radicale italiano al MoMA di New York, Italy: The New Domestic Landscape (1972), curata da Emilio Ambasz, gli architetti e i designer (Sottsass, Ugo la Pietra, Archizoom etc.) hanno mostrato installazioni perfettamente in bilico tra le diverse discipline. Inoltre, possiamo individuare la cosiddetta Decostruzione degli anni Ottanta come altro punto di svolta, con Bernard Tschumi, Daniel Libeskind, Zaha Hadid, tutti architetti incentrati sulla filosofia di Derrida, che rivendica la preminenza di una pratica trasversale, accostando filosofia, letteratura, cinema. Infine, le nuove tecnologie che emergono nel corso degli anni Novanta, che hanno anche messo in scena un substrato digitale che sottende alla pratica di artisti, designer e architetti.

E il rapporto dell’architettura con l’arte?
Bisogna poi segnalare evidentemente l’estensione del campo dell’architettura nell’arte, che è onnipresente da più di un decennio e che si avvale di artisti per esempio come Olafur Eliasson, Rachel Whiteread, Thomas Demand, Los Carpinteros, Do Ho Suh e Berdaguer & Péjus. A differenza delle figure storiche come Dan Graham e Daniel Buren, per i quali il rapporto con l’architettura parte da una critica politica, gli artisti attuali s’imparentano con l’architettura all’interno di una ricerca di senso, che interroga da vicino la nozione di modello, rivisitando le utopie architettoniche e instaurando uno spazio eterotopico nel quale i punti di riferimento tra lo spazio reale e quello fittizio si invertono. Tutti questi artisti si posizionano d’ora in avanti tali quali ad architetti di sistemi costruttivi che intendono rilevare la complessità del mondo.

Ettore Sottsass, Totem Pilastro, 1969

Ettore Sottsass, Totem Pilastro, 1969

Potrebbe definire il suo ruolo attuale di senior curator del dipartimento di design e prospettiva industriale, Mnam/Cci, al Centre Pompidou di Parigi?
Le missioni che mi sono state affidate dal presidente del Centre Pompidou, Alain Seban [da ieri 5 marzo il nuovo presidente è Serge Lasvignes, N.d.R.], e dal direttore del museo nazionale d’are moderna Bernard Blistène, consistono nell’arricchimento della collezione del design, una raccolta che riunisce ad oggi oltre 400 designer e all’incirca 5000 pezzi. Bisogna ricordare che il Centre Pompidou è il più grande museo d’Europa: tutte le collezioni riunite arrivano all’incirca a 100.000 pezzi. Un corpus che è costituito da due entità, fuse nel 1992: il MNAM – Musée National d’Art Moderne, creato nel 1947, e il CCI – Centre de Création Industrielle, esistente dal 1969.
Con il Cci, la prospettiva industriale ha cambiato la collezione del Centro Pompidou rivelando nuovi territori in costante evoluzione. La trasversalità tra le discipline – arte contemporanea, arti grafiche, design, architettura, performance e multimedia – attraversa dunque la storia propria dell museo. In questo contesto, le mie funzioni riguardano innanzitutto il rafforzamento di una raccolta che attraversi tutto il Ventesimo secolo e arrivi ai giorni nostri, un’azione che la valorizzi sul piano scientifico attraverso mostre e pubblicazioni, ma anche lo sviluppo della ricerca in linea con le scuole di design e le università, tanto in Francia quanto su un piano internazionale, con l’intento finale di preservare il carattere interdisciplinare sul quale si fonda.

Di quali strumenti si avvale la dimensione della prospettiva industriale, all’interno di due istituzioni come il Mnam e il Cci? E qual è la sua definizione di architettura sperimentale nel 2015?
Su impulso di Frédéric Migayrou, direttore aggiunto della Création industrielle, che riunisce i dipartimenti di architettura e di design, la prospettiva industriale, in scia al Cci, è stata riattivata in linea con le nuove tecnologie digitali. Nel 1969, la prima mostra del design del Cci era intitolata Che cos’è il design? riunendo, fra gli altri, autori come Joe Colombo, Charles e Ray Eames, Pierre Paulin, Verner Panton e Roger Tallon. Il design appariva allora come ciò che offriva la migliore soluzione per l’utilizzatore.
Ma oggi le nuove ecologie ambientali che si sviluppano nel contemporaneo richiedono un cambiamento radicale di paradigma. Ora più che mai c’è bisogno di mettere in opera nuove nature, approcciando l’ecologia come un luogo potenziale per lo sviluppo di nature artificiali. Questa ecologia artificiale, sintetica, appare come un sistema architettonico in contatto diretto con la regolazione, ad esempio, della biodiversità. L’architetto deve acquisire, fin da subito, la capacità di produrre nuove forme di natura in sintonia con i principi generativi che governano l’ecosistema digitale e i sistemi viventi. Questo concetto incontra in Francia il pensiero di antropologi come Philippe Descola che esorta a ripensare a un solo ecosistema che riunisca la dimensione umana con quella non-umana, per rimediare alla devastazione del pianeta. O ancora, negli Stati Uniti, si sposa con il pensiero del filosofo Levi R. Bryant che, in scia al realismo speculativo di Graham Harman, analizza la transizione di nuovi assemblaggi, allo stesso tempo ecologici e meccanici che evocano una media-ecologia post-umana. La sperimentazione architettonica, associata ai nuovi strumenti digitali, è riconosciuta da tempo come il segno di una riflessione più vasta e politica.

Andrew Kudless, Chrysalis III, 2012

Andrew Kudless, Chrysalis III, 2012

Che cosa significa dunque sperimentare oggi, nell’ambito del design? Nel 2015 quale tipo di designer o di trend non dovrebbe mai mancare in un istituto come il Centre Pompidou?
Numerosi designer lavorano in stretta collaborazione con scienziati, come Joris Laarman e la sua la seduta Bone chair (2006, coll. Mnam/Cci), ad esempio, che si ispira alla modalità di crescita delle ossa all’interno dell’organismo. Nella ricerca scientifica, nell’artigianato e nella composizione digitale il design si presta a diventare un artefatto ibrido. La simulazione informatica dei fenomeni naturali va di pari passo con le tecniche di prototipazione computerizzata e con la stampa in 3D. Alcuni designer lo definiscono artigianato digitale e ibridano tecniche tradizionali di tissage o di lavorazione delle ceramiche, con quello dei processi digitali riguardanti la progettazione e la produzione, come aveva già prefigurato l’antesignana Knotted Chair di Marcel Wanders, nel 1996. Si deve parlare di slow o di low tech, riavvicinando in qualche modo l’artigianato e l’industria. Inoltre diventa necessario ripensare la produzione per inscriverla in un nuovo ecosistema che non produca più necessariamente oggetti nuovi ma oggetti “fatti con”, così come era già stato teorizzato negli anni Settanta da Victor Papanek.
Tuttavia la differenza è che il low tech può ormai fondersi con le tecnologie numeriche. Oggi si parla molto di materiali intelligenti, di oggetti connessi e interattivi. Non è più tanto l’oggetto ad essere importate quanto, piuttosto, il suo comportamento, la sua reazione proattiva nei confronti dell’utilizzatore finale. Nuovi materiali sintetici, figli minori della biologia e delle scienze informatiche, devono essere declinati per creare un design durevole, multi-scalare, derivante dalle proprietà stesse della materia, assimilabile al comportamento degli organismi viventi. La ricerca scientifica ha contagiato i campi del design e dell’architettura, trainando nuove modalità progettuali, processuali e di produzione. Queste ricerche devono essere presenti in una collezione come quella del Centre Pompidou, che deve offrirsi come una piattaforma, una risorsa per ricercatori e creatori. Il dipartimento di design del Centre Pompidou si trova in linea con le accademie d’arte e di design francesi, così come di quelle internazionali, per sviluppare un approccio programmatico e riflessivo sul design.

Secondo lei quali strategie potrebbero portare, in un futuro, ad una maggiore presenza dell’arte contemporanea all’interno delle mostre di design al Centre Pompidou?
Arte, design e architettura formano un pensiero comune nella corrente modernista, teorizzata dalla Bauhaus rivendicando un approccio globale della creazione. Comunque, in Francia, a partire dagli anni Trenta, attraverso l’Union des Artistes Modernes, autori come Robert Mallet-Stevens hanno favorito gli scambi tra gli artisti; questi personaggi saranno, fra qualche mese, oggetto di un percorso al Centre Pompidou. Nel 2013 è stata organizzata una mostra su Eileen Gray (a cura di Cloé Pitiot) all’interno della quale sono state mostrate tutte le sfaccettature di questa creatrice: design, architettura, fotografia, decorazione d’interni, creazione tessile. Nella presentazione attuale della collezione, a cura di Christine Macel, Une Histoire. Art, Architecture, design, des années 1980 à nos jours, Frédéric Migayrou ha mostrato come il design negli anni Ottanta dialogasse con l’arte contemporanea seguendo una traccia culturale maggiore nel segno di una cultura globale. Gli oggetti di design monocromi, specialmente quelli neri, prestavano la loro dimensione narrativa, dialogando con l’edonismo multiculturale di un Jean-Paul Goude, che ha trasceso tutte le discipline. Oggi sono numerosi i designer che vogliono liberarsi dei limiti della disciplina, così come sono gli artisti a spingersi nel campo del design, provocando un rinnovamento di entrambe le aree, che crea un’altra forma di concettualismo dell’oggetto.

Alessandro Mendini, Canapé Kandissi, 1979

Alessandro Mendini, Canapé Kandissi, 1979

Potrebbe esprimere un augurio, un pensiero che accompagni il suo percorso all’interno del Mnam/cci al Centre Pompidou?
Una collezione deve sempre misurarsi con la creazione attuale, per questo motivo deve sempre essere performativa. Ma anche, e soprattutto, deve rappresentare una matrice per la ricerca, una risorsa per nuovi saperi e nuove modalità di conoscenza del mondo contemporaneo. Ma soprattutto bisogna arrivare ad articolare il lavoro guardando anche alla ricerca scientifica, al fine di rendere vivente il sapere plurale, nel punto in cui collimano arte, architettura e design.

Ginevra Bria

www.centrepompidou.fr

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Ginevra Bria

Ginevra Bria

Ginevra Bria è critico d’arte e curatore di Isisuf – Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo di Milano. È specializzata in arte contemporanea latinoamericana.

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