Destino della lingua. Riflessioni esoteriche per la ricostruzione di un’identità #04

Ultimo capitolo della tetralogia “riflessiva” proposta da Gian Maria Tosatti. Pasolini è ancora un punto fermo, ma intorno a lui questa volta si muovono Enrico V e Jannis Kounellis.


ENRICO V, GALILEO E LA POESIA
Il 24 ottobre 1415, vigilia del giorno di San Crispino, Enrico V, re d’Inghilterra, è stanco, a capo di un esercito stremato, ridotto da 32mila a soli 6mila uomini, che marcia da settimane nella terra straniera di Francia, inferiore di numero e per armamenti rispetto agli avversari. È la vigilia di una battaglia che potrebbe non avvenire mai, proprio per l’insicurezza degli inglesi che tentennano nel proseguire la propria avanzata verso uno scontro che li vedrà opposti a ben 25mila francesi (c’è chi ha scritto anche 50mila).
Alla vigilia di quella che sarebbe comunque stata un’alba di sangue, i soldati chiedono a re Enrico di riflettere se non fosse meglio fermarsi e, forse, salvarsi. “Fai pure proclamare a tutto l’esercito che chi non si sente l’animo di battersi oggi, se ne vada a casa: gli daremo il lasciapassare e gli metteremo anche in borsa i denari per il viaggio”, dichiara ad alta voce il sovrano rivolgendosi al suo lord comandante. Ma quelli che resteranno, “noi pochi, noi felici pochi” – dice proprio così –, potranno scrivere “una storia che ogni brav’uomo racconterà al proprio figlio”. Così Shakespeare mette in parole il famoso discorso di San Crispino, che Enrico pronuncia davanti ai suoi soldati. Il mattino successivo si terrà la battaglia di Azincourt. Gli inglesi vinceranno. Ma ad aver portato la battaglia, ad aver reso possibile la vittoria, non sono stati calcoli militari, differenze di potenziale bellico o armi segrete, sono state le parole di Enrico che Shakespeare, nel suo omonimo dramma, ci riporta in poesia. Ed è appunto con la poesia che Enrico parla a uomini che la stanchezza ha ormai trasformato in una schiera di individui soli, preoccupati delle loro schiene dolenti e delle loro gambe pesanti. Il re poeta accende con le sue parole la stella che ogni soldato porta dentro di sé e li trasforma in una cosmologia, riporta i singoli John, James, George, Henry a essere, come dice il re stesso, “a band of brothers”. E sono loro, non Enrico, loro, i soldati a fare le mosse giuste sul campo e a sbaragliare i francesi che partivano in rapporto di cinque contro uno. Ma senza la poesia, senza quel discorso, non ci sarebbe stato coraggio, non ci sarebbe stata battaglia, non ci sarebbe stata vittoria.
Ci sono, forse, momenti o luoghi, nella Storia, in cui gli uomini non hanno bisogno di combattere. “Sventurata quella terra che ha bisogno di eroi”, fa dire Bertolt Brecht al suo Galileo, un altro personaggio realmente vissuto, come Enrico V e divenuto protagonista di un immortale dramma storico, ossia di quella, che in due parole potremmo definire un’opera d’arte. E credo che da qualche parte, nel tempo e nello spazio, sia esistito o esisterà il migliore dei mondi possibili. Ma non è questo il momento. E non è questo il luogo. Ogni elemento attorno a noi ci racconta che viviamo in una terra sventurata. Questo, dunque, deve sicuramente essere il “tempo degli eroi”.

LA GUERRA DELLE LINGUE
Le guerre del presente, tuttavia, non si combattono più con gli eserciti. Jannis Kounellis un giorno mi disse che tutte le guerre del Novecento si sono combattute sulla lingua, con la lingua. È, infatti, sull’intendersi, sul senso delle cose, sulla confusione, che si gioca la vera partita. Oggi ci accorgiamo che negli anni della pace apparente, mentre pensavamo di vivere nel migliore dei mondi possibili, nella prosperità del boom economico del dopoguerra e poi degli Anni Ottanta, la lingua è stata cambiata sotto i nostri piedi… Oggi la esercitiamo con naturalezza. Eppure nel farlo, noi uomini e donne, ci troviamo a costruire, quasi senza volerlo, significati che raccontano un mondo che ci possiede, come una gabbia ideologica possiede i suoi ostaggi. La lingua, che definisce i desideri, le speranze, non ci somiglia più. I nostri desideri, mentre li raccontiamo, sembrano desideri di altri, la nostra identità sembra determinata altrove. E ci troviamo vittime di un nuovo colonialismo che si manifesta a noi e ci rivela il suo dispotismo proprio attraverso il linguaggio, il nostro linguaggio.

L’EREDITÀ DILAPIDATA
La lingua, come per Platone e per Socrate, è la forma attraverso cui prendiamo coscienza delle forze della realtà che agiscono su di noi o che a noi si espongono. Una lingua libera, come elemento di mediazione, di conoscenza, di condivisione, è l’unico strumento reale per costruire un mondo. Nella lingua, prima che nella forza, si esprime la giustizia, nella lingua si esprime l’eterno presente della memoria e della Storia, il patrimonio della saggezza umana, quando l’evidenza dei fatti è persa nel conto infinito degli anni. Essere padroni, e al contempo rispettosi custodi della libertà della propria lingua, significa dunque essere padroni del proprio futuro. Scoprirsi in bocca una lingua venduta, come fossimo eredi di una fortuna che nel passato è già stata dilapidata segretamente, significa scoprirsi poveri, di più, miserabili, o peggio, venduti assieme all’eredità che ci sarebbe dovuta toccare. I significati di quel che diciamo allora sfuggono alla nostra volontà e definiscono parole d’ordine di una odiosa macchina del consenso, o peggio, di un’ignavia, di una resa, che sembra iniziata da prima che cominciassimo a prendere conoscenza con l’alfabeto.

Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

LA LINGUA È LA RIVOLUZIONE
È il deserto. Quello che Pasolini definisce come “gomito a gomito col vicino, vestito nei tuoi stessi grandi magazzini, cliente dei tuoi stessi negozi, lettore dei tuoi stessi giornali, spettatore della tua stessa televisione”. Ad attraversare questo deserto, proprio come il Django di cui ho accennato nel primo scritto di questa tetralogia, ci sono uomini che definirò semplicemente “poeti”. Pochissimi, appartenenti a un ordine antico, quasi dissoltosi, un ordine di predestinati, ma non per questo immuni dalle tentazioni e dalle debolezze. Un ordine tradito da molti, finiti nelle corti e negli uffici, proprio a riscrivere la lingua, a indebolirla, a rovesciarla. Ma quelli che sono rimasti a battere il deserto, coi volti coperti come beduini, con le gambe stanche, ma forti, sono gli uomini della razza di Enrico o di Shakespeare, di Galileo o di Brecht. Sono l’ultima linea di difesa dell’umanità. Quei pochi che non hanno ceduto, perché sono per razza e per destino i custodi della lingua, oggi conservano un alfabeto antico, originario. Di esso hanno tenuto le matrici.
È una lingua che apparentemente sembra centomila leghe distante da quella attuale. Gli artisti, i poeti, parlano ancora il greco di Omero, di Eschilo e dei loro eroi dello spirito, Ulisse, Ettore, Filottete… Mentre nelle strade echeggia solo il greco moderno, il greco della corruzione, della crisi. E a volte essi stessi credono che il popolo, il grande esercito che sempre dovrebbe lottare per la sua libertà, non li capisca più. Ma la lingua che è stata ceduta dalla maggioranza, quella lingua antica fatta di splendore, di altezze e di crudeltà non è dimenticata. Resta a scorrere nelle vene, perché è la lingua del sangue. E solo essa può descrivere lo scenario tragico del presente per ciò che è, nella sua verità. Dirci per una buona volta che siamo dalla parte sbagliata della Storia, che abbiamo addosso le casacche dei tiranni che ci hanno conquistati come bestie, come bestie ci hanno allevati e per i quali come bestie moriremo se non sapremo vomitare la loro riappropriarci di una lingua libera. Una lingua primaria, come quella usata da Adamo per definire le creature della terra. L’unica lingua in cui si può dare poesia. È una lingua che sembra costruita da titani, che parla per assoluti, che polverizza gli alibi.
Non è la lingua della rivoluzione, piuttosto questa lingua è la Rivoluzione, tremenda e crudele, tragica, che divide – come nell’adagio evangelico – “il figlio dal padre e la figlia dalla madre”. Divide, per dirla di nuovo con Pasolini, il deserto dalla polis, ciò che è inerziale da ciò che è politico, e quindi l’abbrutimento da ciò che mira all’evoluzione degli uomini, perché il tempo degli eroi, in cui siamo affondati, possa di nuovo generare il migliore dei mondi possibili. Questa lingua è quella in cui si scrive il destino ed, anzi, è essa stessa un destino. Per riconquistarla, per strapparla alle distanze e all’oblio, per liberarla come un’epidemia che riscriva il nome di ogni cosa restituendogli la sua identità, la sua complessità, la sua dignità, vale la pena combattere una guerra che in tutti questi anni abbiamo subito senza combattere. E di questa guerra solo i poeti, i pochi rimasti, zingari o cani senza padrone, potranno essere i capitani. Dalle loro periferie dovranno risalire le consolari e dire a se stessi: “Oggi devo essere ancora Enrico V!”.

Gian Maria Tosatti

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