Conversazioni d’arte. Laura Tansini e Agostino Bonalumi
Secondo appuntamento con le conversazioni che Laura Tansini ha pubblicato nelle ultime decadi. Accanto a lei, al suo microfono, i più grandi artisti del secolo scorso. Siamo partiti con Jeff Koons, ora torniamo in patria con Agostino Bonalumi. In un dialogo realizzato una decina d'anni prima della morte dell'artista lombardo.
Sono trascorsi quarant’anni da quando Agostino Bonalumi (Vimercate, 1935 – Milano, 2013) – nato e cresciuto in una famiglia del proletariato milanese, quando proletariato era sinonimo di serietà, rigore, onestà ed impegno – iniziava il suo cammino di artista in una Milano, quella degli Anni Sessanta, attenta alla nuova architettura e al design, che molto deve alle ricerche artistiche di quegli anni. Un inizio difficile per Bonalumi, che doveva declinare le aspirazioni personali con le esigenze della vita. Ha conosciuto il lavorare presto, ha fatto molti mestieri ma non ha mai rinunciato ad essere pittore. Il doversi “dividere” tra lavoro e arte gli è costato molto, tanto che ancora oggi rifiuta impegni – come l’insegnamento, che comunque gli piace e gli sarebbe congeniale – per non rischiare di rivivere quella sofferta, antica sensazione di “divisione” e di limitazione alla propria creatività.
Quarant’anni di lavoro che gli hanno portato riconoscimenti e soddisfazioni, fortuna critica ed economica ma che non lo hanno cambiato, non lo hanno indotto ad “abbassare la guardia”, a prendere “scorciatoie”, a usare “formule”. Bonalumi è rimasto il ragazzo “impegnato” degli Anni Sessanta: il rigore nel far bene il proprio lavoro, nel rispettare le regole che si è imposto, mettendole sempre in discussione nella costante ricerca di nuove soluzioni è ciò che ancora oggi lo guida.
Negli Anni Sessanta, insieme a Colombo, Scheggi, Castellani, Manzoni ed altri artisti che operavano a Milano, ha dato vita al movimento Nuove Tendenze, che cercava nella pittura nuovi strumenti, un nuovo linguaggio, nuove forme di espressione.
Per comprendere il lavoro di Bonalumi occorre entrare nella sua idea di “opera” e di “uso” dei materiali (tela e colore). Di questo abbiamo parlato lo scorso febbraio [2002, N.d.R.] nel suo studio di viale Stelvio, da dove si vedeva il ciliegio quasi in fiore.
Parliamo di Nuove Tendenze.
Al tempo di Nuove Tendenze si considerava l’opera non più come luogo di rappresentazione ma per la sua oggettualità, come oggetto e non rappresentazione di una oggettualità esterna.
Siccome tutti i pittori usavano la tela, l’ho usata anch’io. Il punto per me non era abbandonare la tela ma cosa fare con la tela. Fare l’opera con la tela e non sulla tela; il che è fare pittura superando la pittura. Nelle mie opere la tela è uno degli elementi dell’opera in quanto la costituisce insieme ad altri mezzi come la struttura ed il colore.
Che importanza ha il colore nel progetto dell’opera?
Il progetto nasce colorato. I colori sono luce e la forma è pensata con certi gradi di estroflessione che riflettono la luce anche in funzione del colore. Io intendo la forma, l’immagine fatta di colore. Non è una forma dipinta, l’estroflessione è un territorio di colore dal quale emerge una forma.
Infatti le tue opere interferiscono con la percezione dello spazio…
Interferire con la percezione dello spazio è una delle intenzioni dell’opera. C’è anche uno spazio interno all’opera: Celant le ha definite “contenitori spaziali“. Parlo di uno spazio fisico, reale; quello dietro l’opera… C’è una superficie che si muove per delle spinte e per delle tensioni e si protende verso un’invasione spaziale.
Quando lavoro con la tela devo rispettarne i limiti e le proprietà, che – se non sono cieco di fronte ai mezzi che uso – devo saper usare e rendere efficaci nel “disegno” che voglio portare a compimento… per non deluderle eludendole. Non è così quando, anziché la tela, uso la fibra di vetro: allora non c’è più una tensione, è un modellato.
Se mentre il progetto è “in opera”, intendo quando stai dando “forma” alla tela, hai dei ripensamenti, puoi intervenire per cambiare il progetto?
Nelle ultime opere questa possibilità c’è, mentre in quello che ho fatto prima degli Anni Novanta non era possibile. Ma posso cambiare solo fino a un certo punto, perché una volta che la tela è legata alla struttura, devo andare avanti secondo il programma altrimenti non mi obbedisce più, non mi segue più.
Il momento creativo allora si esaurisce nel progetto?
No, il passaggio dal progetto all’opera è ancora creativo nel senso che le difficoltà o le impossibilità che incontro in questo passaggio, se in quel momento le devo lasciar perdere comunque non le perdo; le sposto al progetto successivo; il ruolo del caso non è eliminato, è sospeso e recuperato come esperienza.
Quando c’è qualcosa che spinge dietro alla superficie della tela, si avverte quasi una vicinanza ad un punto di rottura; è il senso della tensione, che poi non c’è nella realtà perché la tela, quando viene data la preparazione e poi dipinta, non tira più, si fissa… ma l’occhio coglie comunque la tensione.
È accaduto di dover interrompere un lavoro perché eri andato oltre il limite di resistenza della tela?
Sì, e anche perché, arrivato a un certo punto, non potevo più proseguire nella definizione del progetto.
Come nasce l’opera? Da dove vengono le idee?
Nel processo creativo è molto importante la consequenzialità. Se l’arte è riflessione sull’arte, vuol dire che c’è anche un elemento di autoreferenzialità. Per una cosa che è presente, spesso bisogna rifarsi a qualcosa che non è presente, che poi è il luogo della funzione simbolica… Per questo cerco sempre di lasciar filtrare delle “provocazioni”, che io stesso causo o che mi vengono dall’esterno; altrimenti rischierei di divenire totalmente autoreferente.
Per un certo periodo ho sviluppato un discorso abbastanza consequenziale, lasciando cadere certi suggerimenti che mi arrivavano mentre lavoravo, suggerimenti che ho ripreso successivamente perché nello sviluppo della mia opera mi si presentava un momento in cui quelle cose che avevo lasciato cadere diventavano necessarie, sia come soluzione possibile per arrivare a un certo risultato, sia come provocazione. Riprendendo queste cose abbandonate e portandole al centro dell’operazione, determinavo uno spostamento o una rivoluzione dentro l’operazione e quindi un essere diverso senza aver cambiato.
Penso che se oggi facessi una retrospettiva senza indicare con puntiglio i “passaggi”, la mostra potrebbe apparire come una collettiva di un gruppo di artisti che operano nello stesso ambito.
Nella tua opera si percepisce un rigore formale che è anche rigore di ricerca: che rapporto hai sviluppato con questo sentimento?
Per me il rigore è il perseguire, l’andare verso una mira, porsi in atteggiamento rigoroso di fronte ai problemi. Negli Anni Sessanta, nell’ambito di Nuove Tendenze si parlava molto di metodo, di metodologia, di rigore, quasi invidiando il pensiero scientifico, mentre l’arte ha un pensiero che potremmo definire scientifico suo proprio.
Il pensiero artistico è molto simile a quello scientifico… Sempre di ricerca si tratta, ma è più libero, gratuito…
È qui che entra in gioco il rigore, quando rispetto a questa libertà c’è un’attenzione che la controlla e che la provoca, determinando aperture di germinazione. È rigore quando io so che il metodo è provvisorio, non può essere fissato una volta per tutte se no diventa una ricetta. Ed è rigore quando io il concetto di metodo al lavoro lo trattengo all’interno di un concetto più vasto, che è quello di metodologia.
Dopo l’esperienza degli ambienti, come quello di Foligno o quelli realizzati in case private, c’è qualcosa che non hai ancora fatto e ti piacerebbe realizzare?
Mi piacerebbe fare un’opera da mettere in uno spazio aperto, qualcosa che mi stimoli a spostare l’invenzione verso limiti che non ho sino ad ora affrontato. Dato una spazio, dato una destinazione, dato una funzione, creare un’opera… Proposte che, venendo dall’esterno, provocherebbero la mia creatività, come intrusioni che determinano delle lievitazioni. Una situazione nella quale il mio progetto dovrebbe fare i conti con tante altre cose, mentre non mi interesserebbe adattare un progetto già esistente per una situazione contingente. Perderei l’occasione di farmi stimolare a creare qualcosa di nuovo.
Laura Tansini
Estratto da un articolo pubblicato su “Ars”, anno VI, n. 7-8 (luglio-agosto 2002)
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