Una danza per imparare il mondo. Parla il coreografo di mk

Conversazione con Michele Di Stefano, coreografo di mk. Il soggetto: lo spettacolo che sarà presentato in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma tra il 7 e il 9 febbraio.

In Robinson cosa è rimasto, evidente e nascosto, del romanzo di Michel Tournier Venerdì o il limbo del Pacifico da cui siete partiti?
Il mio atteggiamento nei confronti dei testi che sto attraversando (Verne, Roussel e ora Defoe/Tournier) reagisce innanzitutto a un’idea di “romanzesco” che, per essere sintetici, produce l’illustrazione e cancella il racconto. È il destino del romanzo di avventura, spalancare l’immagine dell’altrove. Poi, Tournier rilegge Robinson capovolgendo la dinamica di Defoe: l’isola non è più il luogo dove misurare tutto ciò che è misurabile, ma diventa il luogo della metamorfosi. L’incontro tra Robinson e Venerdì è preparato da questa immersione del naufrago nell’incomprensibile, che è appunto necessaria alla metamorfosi. La coreografia è tutta qui, nell’ansia misuratrice/metrica che fa i conti con il corpo dell’altro.

Con Luca Trevisani avete trasformato lo spazio scenico. In quale direzione?
Luca ha pensato a interventi perturbatori che non generano “ambiente” e non trasformano il vuoto in una installazione, ma hanno sempre a che fare con i corpi. Mi viene da dire che sono in attesa dei corpi, mi sembra che li osservino.

In che modo hai chiesto ai tuoi danzatori di reagire alla musica di Lorenzo Bianchi Hoesch?
In realtà non costruiamo un rapporto di reazione: sono due sistemi linguistici che si sovrappongono e si incrociano, più precisamente si soppesano a vicenda, con una certa diffidenza.

mk - Robinson - photo Ilaria Scarpa

mk – Robinson – photo Ilaria Scarpa

Hai scritto: “La danza è soprattutto un atto di apprendimento”. Puoi definire due o tre cose che hai imparato, nell’allestimento di Robinson?
Il lavoro coreografico che stiamo facendo è piuttosto inconsueto per noi, perché fortemente manipolato dalla scrittura, dallo spettro della “sequenza”. Essere occupati a scrivere vuol dire essenzialmente “tenere il tempo” di queste sequenze. Quel che stiamo imparando a fare è ricalibrare l’esattezza metrica in relazione a quello che succede intorno a ogni corpo: regalare all’altro una precisione che è interessante solo in quanto prodotta dalla massima corruzione ambientale. Tutta la parte centrale della coreografia è una danza corale che chiamiamo “mondo” proprio perché nasce dal desiderio di costruire se stessi attraverso la presenza degli altri.

È possibile nominare ciò che il pubblico potrebbe ricevere da questo spettacolo?
Ho sempre pensato al teatro come al luogo che permette di far affiorare l’indicibile; in questo senso, tutto ciò che può essere nominato non è mai il punto di arrivo dello spettacolo.

L’Occidente colonizzatore è un topos che ti accompagna da molti anni. Quale nuovo passo è stato fatto, con Robinson, rispetto ai lavori precedenti?
Il Robinson di Tournier affronta questioni complesse, spesso attraversate da incubi psicoanalitici. Ha generato molte riflessioni importanti, da Deleuze a Foucault, sul concetto di isola come luogo della ricreazione della civiltà, che non mi sogno di affrontare qui. La cosa che mi interessa veramente è lasciarmi alle spalle tutto l’immaginario post-coloniale che ha generato lavori come Il giro del mondo o Impressions d’Afrique e, se possibile, cominciare a considerare con strumenti nuovi la solitudine della figura umana rispetto al paesaggio.

mk - Robinson - photo Michela Leo

mk – Robinson – photo Michela Leo

Cosa mancherà in questo spettacolo? E più in generale: cosa la danza non può contenere?
La danza non può contenere il corpo, è il suo bello; rende ogni confine uno spessore, una zona di passaggio verso fuori.

Michele Pascarella

www.mkonline.it

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Michele Pascarella

Michele Pascarella

Dal 1992 si occupa di teatro contemporaneo e tecniche di narrazione sotto la guida di noti maestri ravennati. Dal 2010 è studioso di arti performative, interessandosi in particolare delle rivoluzioni del Novecento e delle contaminazioni fra le diverse pratiche artistiche.

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