New York vista da Governors Island
Guardando Wall Street dalla prospettiva di Liberty o Governors Island, si nota come una cornice orizzontale corra perfettamente “a piombo", tracciando una piattaforma netta su cui sembra poggiare tutto il carico della città. Da questo punto di vista prende avvio la visione di Alessandro Facente, che qui ci racconta cosa c’è sotto New York.
Se l’intuito non mi tradisce, è la stessa prospettiva sul quartiere che i fratelli Coen catturano nei primissimi istanti del film Mister Hula Hoop (The Hudsucker Proxy, 1994). Prima che l’immagine stacchi a volo d’uccello sulla griglia di Manhattan e che il narratore dica: “It’s 1958“. In quei sedici secondi precedenti il celebre “That’s right. Neeeewwwwww York“, strisciando quel “niuuuuu” come a voler assecondare il lento avvicinarsi della camera verso la città, con una voce calda e convincente ci sta dicendo già abbastanza di quel blocco appoggiato lì su.
Ambizioni, aspirazioni, sogni, fantasie, successi, delusioni, fallimenti, disincanti, nostalgie, logorii e solitudini: è la cosmologia estemporanea di pulsioni che le persone proiettano su quell’oggetto a cielo aperto, il quale, parandosi quotidianamente davanti i loro occhi, domanda loro – come ha già fatto qualcuno – “are you talking to me?“.
Un dialogo franco, dunque, perché dopo tutto ciò che c’è da sapere di quell’affare di vetro e cemento sta tutto lì, compresa la storia, le identità, quei sentimenti, che sono essi stessi il passato della città, racchiusi però non sotto quella linea, ma nelle interiorità di chi temporaneamente o permanentemente vive qui.
In Europa, in Italia, le stratificazioni archeologiche sono i livelli interrati del nostro alfabeto visivo con cui impattiamo visualmente ogni giorno. È chiaro, quindi, che rivolgere lo sguardo verso il basso è un tentativo solo che disperato in una città come questa, dove la storia non è qualcosa che si stratifica nel sottosuolo, ma un procedimento ongoing che si costruisce passo passo implicando le vicende del contemporaneo con le vite e le storie intime delle persone, nel luogo della loro interiorità, diventando essa stessa – l’interiorità intendo – il sottosuolo che questa superficie non ha mai avuto.
Avere la sensibilità di intuire una profondità dietro le apparenti superfici con cui giornalmente impattiamo mi riporta vertiginosamente al ruolo che, per John McCracken, il colore ha nel determinare la forma delle sue sculture viste in mostra a settembre presso la galleria David Zwirner di Chelsea. Secondo l’artista, la forma non si esaurisce nell’architettura estrinseca delle sue geometrie, ma in quella modificazione sostanziale che tale geometria subisce per via di quelle infinite rifrazioni che le sue cromie lucenti regalano a quelle superfici. Pur continuando quindi a sussistere nel loro stadio esterno, tali geometrie sprofondano in una dimensione che è certamente interiore, e lo è per la tridimensionalità che quelle stesse cromie specchianti ci invitano ad entrare.
Dare dunque a qualcosa di superficiale la speranza di un’interiorità è il gesto di generosità disarmante che chiunque riserva a questa piatta-forma, regalandole gli infiniti sottosuoli quanto infinite le identità in essa riscontrabili.
Alessandro Facente
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