Jacopo Rinaldi: l’opera come luogo
Romano, classe 1988, triennio all’Accademia di Belle Arti di Roma e biennio specialistico alla Naba di Milano, Jacopo Rinaldi nel suo curriculum vanta residenze, workshop e collaborazioni con pubblicazioni e spazi non profit. Un percorso nell’approfondimento delle pratiche installative e curatoriali che l’ha portato a impiegare tanti mezzi senza privilegiarne alcuno. L’urgenza è captare il rapporto che quegli stessi mezzi instaurano col contesto sociale e ambientale. L’opera per lui non è un oggetto statico, ma un attivatore di connessioni, un “luogo” d’indagine. La parola all'autore della copertina di Artribune Magazine numero 17.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Mal d’Archivio di Derrida, L’amicizia di Bataille, Nudi e crudi di Bennett. Sono legato ai Velvet Underground, agli sviluppi da solisti di Nico e Lou Reed, alla scena di Manchester di fine Anni Settanta.
I luoghi che ti affascinano.
Gli interni abitati.
Le pellicole più amate.
L’Angelo sterminatore di Buñuel, Il posto di Olmi, Mysterious Skin di Araky.
Artisti guida.
Walter De Maria, Félix González-Torres e Franco Vaccari.
Residenze, workshop, collaborazioni con spazi non profit o realtà editoriali, persino uno stage a dOCUMENTA (13). Cosa ti è rimasto?
Tanto materiale e una RAM da formattare.
Affermi che la tua ricerca si sviluppa in una dinamica di tensione fra contesto socio-ambientale e medium utilizzato e che produci oggetti incompleti, tracce o frammenti soggetti a una dipendenza dinamica con lo spazio (a volte il fuori campo) e la soggettività.
Si tratta di un patteggiamento o di un compromesso. Ho l’impressione che i miei lavori più efficaci siano quelli in cui il mio intervento è minimo. Credo si tratti di una forma di pigrizia, ma permette ai lavori di adattarsi al contesto e di funzionare fuori dalla mia guida.
Non prediligi alcun mezzo. Impieghi con disinvoltura fotografia, video, disegno, cartografia, Google Street View e dispositivi vari, come i light meter che si trovano nelle chiese per illuminare a comando i capolavori. C’è qualche elemento che accomuna tutti questi mezzi?
Non credo esista un elemento strutturale che accomuni diversi media. L’elemento comune è il contesto mediale. La mia ricerca è tesa a far convergere mezzi differenti e mi permette di lavorare sulle caratteristiche, sulle funzioni, e sulla politica di un mezzo in un ambito intermediale. Per questo mi capita di utilizzare la fotografia per la registrazione sonora o di lavorare sullo statuto di un documento attraverso un mezzo ambiguo come il disegno.
La memoria sembra avere un ruolo rilevante, sia quella storica e collettiva sia quella riferita al tuo vissuto personale. Penso all’opera ispirata a Fabio Mauri o al video scaturito dalla tua residenza alla Fondazione Spinola Banna.
Il lavoro su Mauri è forse un contatto tra queste due memorie, soggettiva e collettiva. Il progetto è nato dal dialogo con Lara Vinca Masini. In questo periodo sta mettendo mano ai documenti raccolti nella sua vita in previsione della futura donazione del suo archivio. È stato quasi inevitabile che il lavoro riguardasse la memoria e il suo racconto. Con il video di Spinola Banna la memoria aveva un peso molto diverso: riguardava l’esperienza comune di residenza in un arco temporale ristretto. Attraverso questi lavori mi sono reso conto che il mio interesse non riguarda l’atto affermativo della memoria, ma la relativa produzione di uno scarto, o di un rimosso.
Oltre a Mauri, ti sei anche ispirato a un’opera del 1968 di Bruce Nauman.
Si tratta di un ibrido tra la chiocciola di Internet e una “A” anarchica, cerchiata. Il titolo è preso dall’insegna a spirale di Nauman, posta fra la strada e lo spazio del suo atelier. Mi interessa indagare la dimensione contemporanea di spazio pubblico, online e offline.
Utilizzando Google Street View hai lavorato sulla città di Venezia, cercando di mostrare i potenziali limiti della cartografia. In che modo?
Quei limiti sono stati superati con una recente operazione di Google. La mappatura Street View avviene su gomma e la percorribilità virtuale di Venezia ha avuto un ritardo di sei anni. Il mio lavoro, Venezia in abisso, traeva origine dalla resistenza della città a una scansione Street View. Il fuoricampo prodotto da Google mi ha permesso di lavorare sui limiti informatici e sulle relazioni tra i centri e le periferie urbane.
Sei particolarmente legato a un lavoro fotografico che ruota intorno a Lee Miller, scattata da Man Ray durante la loro relazione. Cosa lo rende speciale?
Una scoperta: quella di un riflesso sulla sinistra della pupilla di Lee Miller che si ripete in otto fotografie frontali scattate da Man Ray nell’arco di tre anni. Ho sovrapposto questi otto ritratti utilizzando il riflesso come un cardine, un centro che si ripete mentre intorno tutto cambia.
Com’è nata l’immagine inedita per la copertina di questo numero?
Dal sopralluogo per un mio prossimo lavoro sull’archivio di Harald Szeemann.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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