Un bando per tutti, un progetto per ognuno. Parla Giancarlo Sciascia
The Hub, Produzioni dal basso, Shinynote, Eppela, Starteed, Siamosoci…tantissime sono le modalità online per far conoscere i propri progetti e trovare collaboratori, fondi o finanziatori per metterli in atto. In questo mare magnum di idee spiccano i fari di Che Fare e Culturability, due bandi destinati rispettivamente ai progetti e alle imprese culturali, che sono stati capaci di aggregare e mettere in contatto attraverso la rete molte comunità locali, attirando tantissime candidature. Ne abbiamo parlato con Giancarlo Sciascia, Community Manager di Fondazione Ahref.
Giancarlo Sciascia è un cultural project manager. Uno che ama ideare e lanciare nuovi progetti, e ne ha fatto un mestiere. È stato tra i promotori del premio Che Fare e, quest’anno, segue il premio Culturability, entrambi tesi a favorire percorsi e processi di innovazione e di crescita economica guidati dalla cultura. Perché non è vero che “con la cultura non si mangia”.
Che Fare premiava i progetti, ora Culturability si propone di vagliare e perfezionare modelli di impresa, quindi di business culturali. Si tratta di una logica evoluzione dal progetto all’impresa?
Si tratta innanzitutto di due iniziative diverse nate in seno a realtà molto differenti fra loro: Che Fare è stata ideata dalla rivista Doppiozero con l’obiettivo di conoscere e dare visibilità alle proposte locali più costruttive, comprenderne i bisogni, mostrare le strategie individuate, favorire l’emulazione delle migliori pratiche e facilitare la tessitura di reti sociali. Per tali ragioni, sostenibilità, replicabilità e scalabilità sono stati importanti criteri di valutazione. Il bando Culturability – fare insieme in cooperativa è promosso da Fondazione Unipolis col preciso intento di creare imprese cooperative in ambito culturale e creativo, startup che entrino in relazione con la rete aziendale del gruppo Unipol, articolata lungo tutta l’Italia.
In entrambi i casi, alla base c’è la constatazione dell’esistenza di un difetto di sostenibilità delle iniziative in questo settore. Non credo che sia il caso di parlare di evoluzione perché un legame diretto fra i due bandi non esiste; è tuttavia certo che il quadro e il dato quantitativo e qualitativo restituito da Che Fare ha rappresentato un precedente, un’evidenza e un punto di riferimento importante per Culturability. Che Fare ha aperto un varco rilevando il patrimonio di talento nazionale sul produrre, distribuire e fruire cultura. Culturability ha potuto far tesoro di alcune indicazioni, in un percorso inedito.
Nel lancio del bando Che Fare avete dato grande importanza allo storytelling. Che risultato cercavate?
Abbiamo cercato di lavorare insieme ai partecipanti per propagare al massimo i loro progetti e contemporaneamente il messaggio di fondo di Che Fare, ossia dar loro visibilità e valorizzare tutti “i nuovi modi di fare cultura oggi in Italia”. Una mappatura e una ricerca dell’impensato che non poteva che essere emergente: per questo era necessario che fossero gli attori locali a raccontarsi per voce delle proprie comunità di appartenenza. L’attenzione è stata spostata sull’impatto culturale, sociale ed economico dei progetti. I risultati si sono visti eccome: in due mesi quasi 350 contenuti nella storia di timu.it collegata al premio, un milione di pagine visitate su che-fare.com anche grazie all’intensa attività redazionale online di elevata qualità a cura di Doppiozero e alla collaborazione col Sole24ore – Domenicale.
Qual è il punto di forza del bando di Culturability?
Il percorso non è che a metà, ma da quel che abbiamo osservato finora ritengo che siano due. Innanzitutto il premio attrattivo (200mila euro per dieci startup, stanziamento a fondo perduto che ora è stato ampliato a 300mila euro per quindici startup). Tale impegno è stato visto dai concorrenti o come un incentivo serio per l’avvio d’impresa (per chi era già orientato a intraprendere un percorso imprenditoriale) oppure come un percorso coerente di trasformazione di attività associazionistica/volontaristica verso forme più strutturate. Qui interviene il secondo punto di forza: aver predisposto una fase di accompagnamento/mentorship/formazione e orientamento che si svolgerà fino a ottobre proprio per fornire strumenti di lavoro utili per affrontare la trasformazione citata.
Spesso si dice che il crowdsourcing e il venture capital diventeranno presto i nuovi “fari” del fundraising. Sei d’accordo? Ci spieghi la differenza tra le due forme di finanziamento dal basso?
Non sono né d’accordo né contrario, penso che sia opportuno ragionare in merito al matching fra la natura della nostra iniziativa o attività e il più coerente e adeguato mix di forme di finanziamento che si possono attivare, tenendo presenti i vincoli che abbiamo e gettando lo sguardo oltre l’immediato futuro, tentando cioè di articolare nel tempo la nostra azione. Crowdfunding e venture capital sono due modalità piuttosto differenti fra loro. Definire “dal basso” il venture capital può essere fuorviante. Possiamo parlare per entrambi di un legame di partenariato che ha un centro e accenti diversi; legami i cui effetti sulla sostenibilità (e più in generale sulla creazione di valore del progetto o dell’impresa) non dipendono dal dispositivo impiegato (crowd e/o venture) ma dal suo inserimento (coerente o meno) nel disegno del modello di business e nella comunicazione strategica che ne consegue.
Col crowdfunding abbiamo “una domanda che crea la propria offerta”: una idea progettuale viene descritta e alla propria rete sociale viene data la possibilità di partecipare alla sua realizzazione attraverso una donazione anche di piccola entità. La cornice è quella dell’appartenenza o dell’impegno a favore di istanze per il bene comune. Ciascuna spesa è gratificata su vari livelli secondo un’articolazione che premia chi più dona con artefatti, accesso a esperienze esclusive e contatto diretto con l’artista o con la dimensione simbolica che si è deciso di sostenere. Per aver successo occorre raggiungere una nicchia sufficientemente nutrita per coprire il fabbisogno di finanziamento descritto. L’attività richiede grande attenzione nella comunicazione, anzi, nella conversazione con la propria comunità, perché di fatto è il consenso a decidere o meno il successo della campagna. Ottima reputazione e alta qualità del prodotto comunicativo presentato sono condizioni di partenza.
E il venture capital?
Il venture capitalist è un investitore che per un periodo di tempo limitato decide di affiancare una startup con competenze e risorse economiche, con lo scopo di incrementare la creazione di valore dell’azienda, migliorandone la competitività. Le differenze sono sostanziali (relazione uno a molti contro uno a uno; complessità comunicativa contro accordo contrattuale) eppure un elemento comune possiamo trovarlo nel bisogno e nella scelta consapevole di fare insieme.
Non mancano i miti da sfatare: il crowdfunding è una pratica importante di economia civile, non è elemosina ma l’affermazione di una volontà di indipendenza che permette a una varietà sempre maggiore di idee esser portate a compimento. Non è vero che il venture capital è “roba da speculatori”: le competenze avanzate di analisi dei mercati e scalabilità sono cruciali per il successo di un’impresa promettente. L’investimento è solo uno degli aspetti ma non l’unico; il meccanismo è sano, se poi viene usato in modo piratesco da alcuni operatori questo attiene alla loro etica.
Tre consigli a chi si mette al lavoro per partecipare a un bando culturale.
Sicuramente, leggere con molta attenzione il bando, conoscerne perfettamente le parti che lo compongono e pesarne l’importanza ai fini della valutazione.
Poi l’arte della sottrazione: scrivere con un linguaggio omogeneo e in maniera asciutta, con precisione, scegliendo accuratamente pochi riferimenti ficcanti, indicando poche buone idee e un’ottima organizzazione per realizzarle.
Infine, essere se stessi e lanciarsi soprattutto quando si è incerti: partecipare è un’occasione per sperimentare e conoscere nuovi compagni d’ingegno. Gli spunti devono esser sufficientemente strutturati ma alla base devono esserci una motivazione, una passione e un’energia capaci di farsi largo.
Chiara Ciolfi
cheFare è un progetto di doppiozero in collaborazione con un network di partner che lavorano su impresa sociale, cultura e innovazione: Avanzi, Make a Cube, Fondazione
Culturability – la responsabilità della cultura per una società sostenibile è un progetto ideato e promosso dalla Fondazione Unipolis, la fondazione d’impresa del Gruppo Unipol.
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