L’occhio non muore mai. Dedicato a Gabriele Basilico

La scomparsa di Gabriele Basilico costituisce, fra le altre cose, un grande lutto per la fotografia e il suo mondo. Per ricordarlo - e lo faremo ancora nei prossimi giorni - pubblichiamo oggi una conversazione fra lo stesso Basilico e Bill Owens, che si tenne a Venezia nei giorni dell’11esima Biennale di Architettura.

Nella storia della fotografia si narra che gli occhi di un defunto conservino l’ultima immagine osservata, incisa come su una vera e propria lastra fotografica. L’idea nasce nella seconda metà dell’Ottocento, a seguito dello sviluppo di ricerche e tecniche sulla fotografia, ma ha molti sostenitori in ambito scientifico anche nel Novecento. Vera o falsa che sia questa credenza, ci piace pensare che Gabriele Basilico, uomo colto, persona gentile, grande e indiscusso fotografo internazionale, ci abbia lasciati osservando il Mare del Nord, portando con sé quell’immagine densa, assoluta, infinita, scattata da un promontorio sulle alte scogliere di Calais, che tanto lo rese famoso.
Si tratta della prestigiosa ricerca fotografica realizzata, trent’anni fa, per la missione fotografica francese D.A.T.A.R, unico italiano scelto a documentare il “Continente Europa”, insieme a prestigiosi nomi tra cui Lewis Baltz, Raymond Depardon, Robert Doisneau, Gilbert Fasteneaken, Joseph Kudelka.
Fotografare con lentezza, era il motto di Gabriele. Superfluo ricordarlo solo come un grande maestro della fotografia italiana. Più preciso ricordarlo come uno spirito appassionato, piacevole conversatore, capace divulgatore. Quasi inutile scavare negli aneddoti e nei ricordi: le immagini di Gabriele Basilico hanno inondato il nostro contemporaneo, arricchendolo di angolazioni inedite e modificando il nostro modo di vedere le città. Dalla sua amata Milano a Beirut prima e dopo la guerra; dalla monumentale verticalità di Mosca alla ricostruzione di Berlino, fino a quell’improvviso guizzo di Dancing Emilia, inaspettato racconto di una società in movimento, e forse in estinzione. Da quel momento in poi, non più figure nelle sue grandiosi immagini in bianco e nero: solo piazze, strade, architetture. E ombre. E luci.
Dedichiamo questa inedita conversazione a lui che, come tutti i grandi uomini dell’arte e della cultura, ha saputo diffondere il sapere con passione, con generosità, senza esitare, barcollare, saldo e fiero nella grande missione a lui consegnata. A Gabriele Basilico, il cui sguardo non ci lascerà mai.

Bill Owens, Suburbia, Bay Area, 1972

Bill Owens, Suburbia, Bay Area, 1972

Città: un racconto a due voci. Gabriele Basilico incontra Bill Owens
(evento ideato e curato da Claudia Zanfi in occasione della XI Mostra Internazionale di Architettura di Venezia)

Gabriele Basilico ha più volte dichiarato che la propria ricerca fotografica è in qualche modo debitrice all’opera iniziata da Bill Owens. Claudia Zanfi, curatrice dell’archivio Owens dal 1999, organizza, per la prima volta in Italia, un incontro tra i due maestri della fotografia internazionale sul tema della città.
Il fotografo americano Bill Owens e il fotografo italiano Gabriele Basilico dialogano insieme sul contesto storico-culturale in cui i loro maggiori cicli fotografici si sono sviluppati, e presentano materiali visivi tratti dalle proprie ricerche degli Anni Settanta.
Ci troviamo ad analizzare il lavoro di due grandi fotografi che hanno lavorato, seppur in luoghi e contesti differenti, al tema della periferia urbana, dei luoghi dell’inapparenza che sembra non abbiano nulla di rappresentabile. Nell’osservazione delle periferie si ritrova un approccio simile sia nello sguardo di Owens che in quello di Basilico: entrambi fotografano un mondo “ordinario” in una maniera nuova, come se non l’avessimo mai visto prima. Sia Basilico che Owens danno molta importanza all’intorno e al contesto, che si rivelano essere il punto di partenza della loro ricerca.
Interessante è vedere oggi come un’intera generazione abbia recuperato il lavoro di questi due grandi autori.

Gabriele Basilico, Milano, Quartiere Isola, 1978

Gabriele Basilico, Milano, Quartiere Isola, 1978

Gabriele Basilico: è un onore per me trovarmi accanto a un maestro che è stato così importante per la mia formazione. Negli Anni Settanta ho studiato architettura, laureandomi al Politecnico di Milano, in un periodo di grande fermento sociale in cui sia studenti che docenti erano particolarmente stimolati a entrare in contatto con la realtà fisica e cercando di trasformarsi nei protagonisti di un momento di grandi rinnovamenti e rigenerazione del pensiero che si rifletteva su tutti i livelli della società e della cultura.
All’inizio del mio lavoro come fotografo, il mio interesse spaziava dall’architettura al reportage, nel tipico entusiasmo degli inizi. Il direttore di Casabella voleva trasformare la sua rivista di architettura aumentandone i servizi, ampliandone il pubblico, trattando di argomenti che andassero oltre le mere problematiche della disciplina. Il grande architetto Giancarlo De Carlo, nel realizzare il Villaggio Matteotti di case operaie a Terni, impegnò la committenza a discutere del progetto con le famiglie che avrebbero occupato gli alloggi. Una pratica mai vista prima, che si situava nell’onda di quegli anni segnati da voglia di comunicazione e partecipazione. La committenza accettò, il lavoro venne realizzato e il direttore mi propose di fotografare non solo il risultato dell’architettura, ma anche l’interno delle case. Le famiglie che occuparono le case non ebbero più l’occasione di approfondire il loro dialogo con De Carlo poiché si trattava di culture e ambienti sociali molto diversi fra loro, e quindi la fotografia si rivelava un buon mezzo per documentarne il seguito. Venne così dato uguale spazio alla componente sociale e all’architettura.
All’epoca mi ero interessato al lavoro di Bill Owens, Suburbia, la cui influenza è particolarmente evidente in questa mia serie di ritratti posati negli interni delle case operaie. All’interno del grande ramo della fotografia socio-antropologica si è scoperto, con la visione del lavoro di Owens, un modo un po’ diverso di operare, quasi dolce. Nelle fotografie di Bill c’è una visone critica della società, delle persone, ma che non è mai una critica negativa, bensì sempre costruttiva.
Un’altra grande influenza nei miei lavori è stata quella di Martin Parr che, a sua volta, si ispirò a Owens: egli racconta un mondo possibile con una punta di sarcasmo. Il suo sguardo è spesso duro e tagliente e crea con le immagini un apparato di giudizio, mentre nel lavoro di Owens si respira un alone di fatto in casa, come se le sue fotografie fossero state realizzate in casa di amici. Owens osserva in modo critico, ma senza giudicare e senza portarci mai ad assumere un atteggiamento di superiorità.

Gabriele Basilico, Milano, Quartiere Isola, 1978

Gabriele Basilico, Milano, Quartiere Isola, 1978

Sulla scia della ricerca sociologica, come dicevamo molto in vigore in quegli Anni Settanta, sono andato a indagare il fenomeno dei dancing, balere italiane realizzate sulla base del kitsch americano, su incarico del direttore della rivista Modo . Durante l’analisi del fenomeno dei dancing, cercando di scoprire e rappresentare cosa vi accadeva all’interno, scoprii le peculiarità di una società molto genuina e godereccia, quale quella emiliana. La mia ricerca di svolgeva con un atteggiamento leggermente distaccato per evitare di fare fotografie troppo forti o imbarazzanti. All’interno dei dancing si viveva in un mondo a sé, fatto di gare, balli di gruppo e concorsi di bellezza che facevano emergere tutta la spontaneità della cultura emiliana che li ha plasmati.
Il fenomeno della fotografia “sociale”, grazie all’influenza di Bill Owens, ha cambiato nome ed è diventata di costume, di comportamento. Quando ho ripreso a lavorare ho sostituito, nei miei progetti, le persone fisiche intente a ballare e divertirsi con altre persone. Questi nuovi soggetti erano i protagonisti della periferia industriale milanese riuniti in un lavoro molto lungo durato tre anni: ho raccontato la storia dell’industria attraverso i suoi luoghi. L’industria milanese è un’industria molto frammentata, al contrario di quella torinese che ruota attorno alla città-fabbrica della Fiat. Il mio lavoro di lettura di questi spazi ha fatto scrivere a molti architetti che l’indagine svolta è traducibile in una riprogettazione delle periferie attraverso la fotografia che ricompone un tessuto altrimenti invisibile.
Recentemente è accaduta una coincidenza invisibile: l’anno scorso su incarico del MoMA di San Francisco, che mi ha invitato a fare un lavoro sulla città, ho frequentato e fotografato San José, città in cui Owens è nato. San Francisco è una città architettonicamente molto bella, ma che, proprio per questo, mi spaventava molto. Ho proposto, quasi a scatola chiusa e senza conoscerla, di fare un lavoro sulla Sylicon Valley in quanto area emblematica di uno sviluppo recente e centrale in questi ultimi vent’anni di storia che, da area agricola praticamente deserta, è diventata una zona densamente popolata in ogni suo angolo e distribuita principalmente lungo le due autostrade principali e, senza saperlo, sono passato molto vicino ai luoghi di origine di Bill Owens.
Dal 1978 a oggi, dal lavoro sulle fabbriche, nella mia ricerca ho sempre svolto un’indagine monotematica sulla trasformazione degli spazi urbani, interessandomi in modo particolare alle periferie e ai luoghi di confine.
Nella Sylicon Valley non ho mai fotografato alcuna azienda produttiva: mi interessava leggere come abitano gli americani, la variazione tipologica degli insediamenti che si sviluppa lungo più di cento chilometri di area urbana che anche Bill ha fotografato in passato e che è tornato a fotografare recentemente. Il lavoro alterna zone molto povere ad altre, invece, particolarmente ricche, per terminare con l’analisi di un’area in cui era stato ricostruito il paesaggio toscano italiano. Mi piaceva, in questo lavoro, dare un’idea del territorio americano on the road, con spazi infiniti lungo delle arterie di comunicazione.

Bill Owens, Suburbia, Bay Area, 1972

Bill Owens, Suburbia, Bay Area, 1972

Bill Owens: Con Suburbia ho cercato di fornire una panoramica di quegli Anni Settanta attraverso un lavoro svolto anche negli interni delle case della middle-class americana.
Il mio lavoro rivela una forte relazione con i soggetti, dal momento che non c’è alcuna distanza fra il fotografo e i soggetti ritratti, ma sono testimonianze dirette. Si tratta di una fotografia che sta già scivolando in un’altra direzione, quasi nella narrative-art con valore documentale molto esplicito. Quella ricerca di Suburbia dura oltre due anni in cui ritorno, in modo continuato, negli stessi luoghi ripetendo l’azione fotografica con costanza e metodicità.
Il ritratto sociologico-antropologico-urbanistico racconta come gli atteggiamenti delle persone di trent’anni fa, ritratte nel primo lavoro su Suburbia, siano ritrovabili nelle persone ritratte oggi, come in una ruota che si ripete. In periferia non c’è nulla da fare e passo molto tempo guardando la tv, soprattutto durante le vacanze, periodi dell’anno che amo molto e che penso rivelino l’essenza della società. In alcune immagini per me molto importanti, sono riuscito a condensare tutti i simboli dell’epoca raccontando, in una metafora, la società di quegli anni.
Vivere nei quartieri di Suburbia comporta regole molto strette, dove tutto, soprattutto all’epoca, era regolamentato, come per esempio la cura del prato davanti a casa, e alcune mie immagini rivelano queste regole radicate nella comunità.
Un fattore molto importante dal punto di vista sociologico è l’analisi del tipo di oggetti e soprammobili presenti in un’abitazione. La lettura sociologica è uno degli elementi che più interessa la mia indagine. Infatti, sono stato particolarmente colpito dall’opera di un collettivo di giovani architetti e artisti che, in occasione della Biennale di Architettura, hanno ideato un’installazione legata ai frigoriferi e a ciò che vi è nel loro interno, come spunto per un’analisi sociologica del proprietario. È proprio questo il modo in cui mi piace guardare al mondo e alla società. Le cucine sono il luogo che più rivelano la tipicità delle persone che abitano una casa.
Passando per i vari giardini di Suburbia sono stato colto da particolari bizzarrie e, molte di queste, rimandano a un passato personale articolato in svariati ricordi visivi.
Segue poi la serie di fotografie Working. We do it for money, ciclo della seconda metà degli Anni Settanta, dedicato al mondo del lavoro e all’invenzione di nuovi impieghi. Leisures è invece un ciclo di opere sull’analisi delle metodologie di impiego del tempo libero da parte degli americani, che rivelano sempre particolari bizzarrie. Non capisco quelle persone che si mettono davanti a un panorama e lo dipingono: ha molto più senso fare una fotografia!
Nel mio percorso è anche presente un lavoro dedicato ai gruppi, dato che negli Stati Uniti l’associazionismo è un fenomeno molto diffuso a ogni livello nella società. Sto ora iniziando un lavoro sul cibo considerato in una prospettiva consumistica, legata all’abbondanza e all’eccesso tipici della cultura americana.

Bill Owens, Suburbia, Bay Area, 1972

Bill Owens, Suburbia, Bay Area, 1972

Claudia Zanfi: Negli ultimi anni (2005-2006) c’è stato un ritorno di Bill Owens a Suburbia: dopo quel viaggio nelle periferie degli Anni Settanta, questa nuova indagine ha rivelato altre particolarità e bizzarrie della società americana. Il tema molto acceso del consumismo è presente attraverso i grandi pannelli pubblicitari, i carrelli dei supermercati, le enormi porzioni di cibo nei fast-food, da cui emerge una critica all’eccessivo consumismo della società americana.
Segue poi un lavoro sul tour di 115 giorni intorno all’America, una sorta di coast to coast all’interno di un paesaggio che cambia in continuazione, nonostante il tema del paesaggio non sia centrale nell’indagine di Owens, ma viene registrato un po’ a modo suo. La ricostruzione dell’immagine dell’”everydaylife” americana non è certo terminata. Bill Owens ha ancora molto da raccontarci.

Il dialogo fra i due grandi fotografi termina con una riflessione sul concetto di “comunità” e sul suo posizionamento all’interno della società. Owens conclude sostenendo che il senso di comunità, che una volta si ritrovava nei grandi concerti o nelle manifestazioni collettive, si è oggi spostato nel web e nelle sue numerose comunità virtuali.

a cura di Claudia Zanfi

Testo inedito, raccolto venerdì 12 settembre 2008, ore 19, presso lo Spazio Eventi Libreria Mondadori, San Marco, Venezia. Courtesy Claudia Zanfi, Archivio Owens, Milano-Usa

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Claudia Zanfi

Claudia Zanfi

Claudia Zanfi, promotrice culturale e appassionata di giardini, collabora con istituzioni pubbliche e private su progetti dedicati ad arte, società, paesaggio. Nel 2001 fonda il programma internazionale GREEN ISLAND per la valorizzazione dello spazio pubblico e delle nuove ecologie urbane.…

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