Il senso di Virgilio Sieni per la Laguna

Virgilio Sieni è il primo artista italiano a dirigere la Biennale Danza. Dalla ricerca sulla danza, indagata come epifania del corpo, focus della densa attività ai Cantieri Goldonetta nell’Oltrarno fiorentino, Sieni ha sempre guardato al rapporto con la storia e con tutti i linguaggi e le discipline umanistiche come salubre area di confronto e nutrimento per la contemporaneità, senza rischio di equivoci. Dal nuovo ruolo di direttore racconta il senso di questo passaggio di scena ed esprime il proprio punto di vista sulla situazione italiana.

Quanto del coreografo entrerà nel ruolo di direttore, che peso avrà la vocazione naturale all’interdisciplinarietà sulle scelte artistiche?
Questo viaggio, appena agli inizi, prevede ad ampio raggio una necessaria adiacenza della danza, e delle espressioni attraverso il corpo e il gesto epifanico, con tutto il mondo dell’espressione artistica e della riflessione teorica legate a altre pratiche, dalle arti visive all’architettura, e naturalmente la musica, ma anche le scienze umanistiche. Il primo impatto, alla notizia della mia nomina a direttore, è stato di immaginarmi una grande apertura alle esperienze con altre arti. Cercherò di creare tutte le possibili connessioni, certamente non scelte di patchwork nella programmazione, ma un lavoro fatto in profondità, connesso alla creazione e ai linguaggi. Ho visualizzato il senso di questa vocazione in una forma quasi di dittico: come se insieme alla coreografia contemporanea ci fosse sempre una stanza accanto, perpetuamente a colloquio con la danza. Un connubio dialogante, come tra due persone una di fronte all’altra che si guardano negli occhi  e cercano una negoziazione.

C’è un cambiamento di scala rispetto a quella che potremmo definire area progettuale. Mi riferisco alla dimensione coltivata in questi anni a Cango, segnata dallo studio, dalle relazioni con persone legate alla speculazione riflessiva e teorica (Agamben tra i molti altri), adattissima a uno spazio che in questi anni è stato il centro del tuo lavoro, di irradiazione internazionale ma molto raccolto.
Il cambiamento è stato eclatante, come eclatante è Venezia stessa. Arrivando in città ho sempre l’impressione di entrare in un’unicità del gioco, intendo qualcosa che si è combinato con una molteplicità di elementi che arrivano da un passato eterno, dall’archeologia, dall’antropologia, e che sotto lo sguardo odierno compongono  una città manifesto. Una forma urbana, architettonica e emotiva che  espone in maniera chiara tutti i conflitti e tutte le bellezze della contemporaneità. E molto forte, in questo passaggio di dimensione, è la possibilità di camminare in una diversa forma di polis, di muovermi in un luogo senza l’ingombro delle automobili. Si aprono improvvisamente spazi invisibili: da svuotare e da vivere, da frequentare per depositarvi tutte le idee di trasmissione con gli altri. Venezia è una città che pone tantissime domande, questioni rispetto all’abitabilità, al concetto di bellezza, al concetto di vita e di morte. È una città che pone tutti i quesiti del contemporaneo.

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Virgilio Sieni – De anima

La tua direzione presenta elementi di continuità o di rottura rispetto alla direzione di Ismael Ivo?
Sono molti gli elementi di discontinuità. Il lavoro fatto finora poneva in rilievo due grandi percorsi: la formazione e la visibilità internazionale del festival biennale. Chiaramente darò seguito al rapporto tra formazione e festival, ma imposterò il mio triennio secondo un’idea compatta di formazione e creazione, con forme di visibilità continue, e non solo negli anni del festival. Ho l’aspirazione di riutilizzare tutta una geografia di spazi articolati dove disporre le varie esperienze, sollecitando anche una percezione diversa della città, e in questo senso si avvia un lavoro inedito rispetto alle passate edizioni.

Questo è in linea con la ricchezza delle esperienze maturate nei sei anni di attività a Firenze, dove hai esteso a un intero quartiere lo spazio della ricerca e della visione.
Ma a Venezia tutto sarà diverso. Anche solo parlando di camminamenti devo pensare a un sistema di relazioni tra calli e campielli, tra Ca’ Giustinian e il Teatro La Fenice, il Conservatorio, l’Isola di San Giorgio, la Fondazione Cini. Si tratta di un passaggio su una ribalta con riflessi planetari e, non è secondario questo, in paesaggi urbani completamente diversi da quelli fiorentini.

Immagino quanto Tintoretto entrerà nella tua visione, così come a Firenze è successo con Masaccio e Pontormo, a Parma con Correggio, e proprio recentemente con Tiepolo…
Certo, naturalmente in una visione condizionata dal senso della contemporaneità, Tintoretto e Palladio, Bassano e Tiepolo, e tutto quello che è smarginamento nello spazio, percezione e rappresentazione di figure che debordano, sarà un nutrimento fondamentale per quello che intendo fare.

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Virgilio Sieni e Paolo Baratta

Questa tua nomina è sicuramente una buona notizia per la danza italiana. Anche se al momento è prematuro fare precisamente dei nomi degli artisti che verranno coinvolti, c’è già qualche idea? Sarà una Biennale Danza più italiana?
Cercherò di aprire molto alle esperienze della danza italiana, per irrorare uno slancio e una pulsazione che si devono rinnovare.

La scena italiana soffre di forme di provincialismo rispetto al panorama internazionale?
A tale proposito mi viene in mente il pensiero di due personalità che fanno dei miei riferimenti teorici: il primo è Ananda Coomaraswamy, critico, storico dell’arte e antropologo indiano, che apre a un incontro tra i linguaggi di tutto il mondo, partendo da un’idea molto circoscritta, legata a un territorio introvabile nel mondo. L’altro è il pensiero di Pierpaolo Pasolini, l’affezione per il dialetto e la scomparsa di un mondo originario e di una antropologia in bilico. Sicuramente in Italia c’è un certo isolamento, si è creata una cesura al passaggio con l’internazionalità. Allo stesso tempo però, e questo mi conforta, ci sono importanti esperienze da un punto di vista artistico, ma anche nel lavoro di operatori e direttori di festival e teatri, che dimostrano un impegno teso ad articolare un discorso più profondo e pervasivo. Spero che la Biennale possa contribuire a fare un lavoro di allargamento, coinvolgimento e visibilità.

Le maggiori criticità, quindi, riguardano l’attenzione delle istituzioni e la cultura del pubblico?
Qui c’è un divario che bisogna ricompattare. La danza è un po’ il rimosso freudiano dell’arte. Qualcosa che è stato sommerso ma che riappare sotto sembianze, il più delle volte sbagliate. È necessario restituirle il senso più ampio della contemporaneità, di tutta l’ampiezza della ricerca, e di tutte le connessioni con i linguaggi.

Pietro Gaglianò

www.labiennale.org/it/danza/

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