Benché Damien Hirst non abbia certo bisogno delle mie parole, per dovere di cronaca vorrei dire la mia su questo artista che continua a riempire le storie dell’arte e non, e sul quale leggiamo sempre più spesso la fine sia artistica che sentimentale. Continua a saltare agli occhi, e non potrebbe essere altrimenti visto che si tratta di un artista visivo, che Hirst è capace di mobilitare con la sua arte e la sua vita le cronache specializzate e generaliste.
Se ne è occupato pure Aldo Cazzullo sabato 14 luglio nella sua rubrica su Io Donna, inserto del Corriere della Sera, in cui scriveva che non basta essere un artista ricco e famoso per assicurarsi una tranquilla e duratura vita amorosa, ma che l’amore è qualcosa che va coltivato giornalmente. Per cui la morale della favola della vita sottintende che l’aver trascurato la compagna di vita Maia Norman ha fatto sì che egli venisse scaricato a favore di Tim Spicer, ex colonnello delle guardie scozzesi. Così il principe degli artisti inglesi veniva lasciato a cuore aperto, un po’ come era successo molti anni prima al principe Carlo d’Inghilterra, la cui Lady Diana se n’era andata prima con il maggiore James Hewitt e in seguito con Dodi Al Fayed.

Tuttavia al cuore aperto di Carlo che, come i vari Jean Clair, avversa l’arte d’avanguardia, l’accomuna pure l’idea di costruire un villaggio modello per sudditi. Difatti, come Carlo, che nel 1988 affida all’architetto Leon Krier progettazione e costruzione in stile tradizionale di Poundbury, villaggio satellite di Dorchester nella contea di Dorset, oggi Hirst ha anch’egli in animo di costruire un villaggio di 500 case ecologiche a Ilfracombe, nel Devon, aiutato dall’architetto Mike Rundell.
Insomma, ecco Hirst, alfiere della Young British Art, che chiude il “secolo breve” sull’onda di un successo planetario e apre il terzo millennio finendo sulla stampa generalista non solo per fatti d’arti ma pure di cuore. È comunque interessante che la società dell’informazione se ne occupi e ci fa piacere, perché Cazzullo poteva prendere ad esempio tante altre storie di personaggi televisivi, cinematografici, sportivi mondialmente e popolarmente molto più noti di Hirst e invece sceglie un artista visivo. Il tutto sottolinea un interesse per l’arte e la vita dell’arte che evidentemente vale la pena di essere presa ad esempio.

Visto così, pare che “fine dell’arte e dell’amore” in Hirst finiscano per coincidere, se pensiamo alle critiche che contestualmente gli sono piovute addosso dal già citato Jean Clair, o da Julien Spalding, che ha parlato della “truffa Hirst” sull’Indipendent, ma anche dal pittore David Hockney, che su Radio Times l’accusa di non saper dipingere.
Tuttavia, non amando assurgermi a Natalia Aspesi, non m’azzardo a entrare più di tanto nelle questioni di sentimenti e lascio qui aperta la questione del cuore, rimanendo quella dell’arte aperta a una prossima occasione.
Giacinto Di Pietrantonio
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9