Spaghetti thriller. Intervista con Giorgio Faletti

Giorgio Faletti, trasformista per eccellenza, ci racconta come vede l’evoluzione del mondo della comunicazione e quello della politica. Mentre i suoi libri continuano a vender copie in dosi industriali. Pure negli States.

Giorgio Faletti, cabarettista al Derby di Milano negli Anni Settanta, comico al Drive In e in varie trasmissioni televisive di successo durante gli Anni Ottanta. Cantante e compositore per il Festival di Sanremo dal 1994. Attore durante tutta la propria vita e scrittore di bestseller internazionali dal proprio libro di esordio, Io uccido, nel 2002. Il tuo percorso artistico ti porterà a misurarti anche con le arti figurative, con la regia, oppure basta così?
In effetti, un poco di curiosità verso le arti figurative c’è, in maniera molto timida e discreta. Circa tre anni fa, per caso, mi sono trovato a fare il mio primo quadro per una mostra di beneficienza. Quell’opera è stata notata da una scout e mi è stato chiesto di farne altre. Recentemente ho avuto tre mostre all’attivo in Italia: al Palazzo Ducale di Genova, alla Galleria Tornabuoni di Firenze e al Museo della Musica di Bologna. Per l’autunno ne sono previste altre due, una a Venezia e una a Londra. Nello stesso tempo, una galleria di New York si è interessata ai miei lavori. Senza proclami, ho intenzione di continuare. Dell’arte figurativa mi piace il coinvolgimento fisico con l’opera e l’immediatezza della comunicazione. Un quadro è un flash, un mondo raccontato in una frazione di secondo, giusto il tempo di permettere all’occhio di trasmettere l’immagine al cervello.

Forse tra i più colti ma senz’altro fra i meno sgamati della gente intorno a me. Con questa frase hai riassunto il tuo periodo d’esordio nel mondo del cabaret milanese. Come definiresti il tuo ingresso nell’editoria e nelle librerie americane?
Nello stesso modo. Senza proclami, solo con la curiosità di scoprire quanto valgo. Non dimentichiamo che si parla di un Paese popolato da maestri di un certo tipo di letteratura. Già il fatto di esserci è un grande risultato.

Nella tua vita non hai mai smesso di crescere e viaggiare. Hai vissuto ad Asti, Milano, Isola d’Elba e oggi il tuo quartier generale è New York. Quali sono i luoghi di questa città che frequenti più volentieri?
New York ai miei occhi è un tutto che faccio fatica a scindere in dettagliati gradimenti. L’ho scoperta piuttosto tardi nella mia vita e adesso sto recuperando il tempo perso, con la golosità e lo stupore di un adolescente. Di certo, con i miei trascorsi, i teatri sono i luoghi che più rappresentano l’incanto, ai miei occhi.

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Un’opera di Giorgio Faletti

New York, capitale finanziaria del pianeta, resta anche capitale dell’arte contemporanea. Il mercato di questo settore continua a premiare la provocazione e l’incoscienza civile piuttosto che l’estetica e il dramma. Anche considerato i successi delle tue vendite in decine di Paesi, cosa ha voglia e bisogno di leggere il pubblico di oggi?
In senso tecnico e non necessariamente qualitativo, io sono uno scrittore e non un commerciante.  Prima di tutto mi chiedo che cosa ho voglia di scrivere. Dopo mi chiedo se il pubblico avrà voglia di leggere quello che ho scritto. Comunque, anche se c’è qualcuno che giudica la quantità di vendite antitetica rispetto alla qualità del romanzo, è inutile nascondersi dietro a un dito: nessuno scrive libri per non venderli.

La consacrazione internazionale di uno scrittore pare essere più democratica rispetto a quello di un pittore o di uno scultore. Mentre qualcuno che scrive ha bisogno di milioni di persone che comprino i loro libri, per un’artista proveniente dalle arti plastiche bastano i milioni di dollari di poche persone. Ho scritto pare perché anche il mondo dei bestseller sembra essere dominato da un’oligarchia insondabile. Com’è successo che Giorgio Faletti sia finito nelle librerie di mezzo mondo?
Ancora adesso anche Faletti se lo chiede. Diciamo un briciolo di talento, molta costanza e tanta fortuna?

Dalle botteghe rinascimentali di Giotto e del Perugino alle factory moderne di Damien Hirst e Takashi Murakami. Il mondo dell’arte contemporanea ha fatto definitivamente outing ed è ovvio che ogni artista affermato si avvalga d’impiegati e consulenti per la realizzazione delle proprie opere. Perché quello della letteratura continua a fare finta che ogni scrittore è autore unico dei propri libri, negando l’impiego di professionisti della ricerca, di soggettisti o della composizione testuale?
Ignoro quale sia la metodologia professionale dei miei colleghi. Per quanto mi riguarda, non ho bisogno di fingere. Faccio le ricerche importanti in prima persona, specie quelle che mi obbligano a viaggiare. E scrivo da solo i miei libri perché sono così ambizioso, nell’accezione più positiva di questa parola, da non voler dividere con nessuno i meriti del mio lavoro. Ovviamente non ho nemmeno qualcuno su cui far ricadere la responsabilità dell’insuccesso. Questo rientra nelle regole del gioco. Del mio gioco, per lo meno.


New York 2002, le metro erano popolate da persone che leggevano libri e giornali. New York 2012, le metro si sono riempite di smartphone, tablet e tante mani vuote. Il pensiero sta cambiando supporto. Dalla carta al silicio. Ti spaventa questa evoluzione?
L’elettronica ha ucciso il mercato musicale così come lo conoscevamo. Ma la musica non è morta. Forse l’informatica, nello stesso modo, rivoluzionerà l’editoria senza che la letteratura ne abbia danno. Ma, quale che sia il risultato, vista la mia età, non credo che avrò il tempo per goderne o di pagarne le conseguenze.

Nel mare della propria mente, l’individuo medio chiede a se stesso di surfare in mezzo a riflessioni brevi piuttosto che immergersi e pescare profondità. L’attuale rivoluzione informatica ha sconvolto ogni canale di comunicazione e provocato una radicale evoluzione del linguaggio attraverso elementi comunicativi quali sms, chat, email. È folle pensare che i libri stiano diventando oggetti da collezione piuttosto che strumenti di riflessione?
Sì. Non credo che gli esseri umani smetterebbero di fare sesso se sparissero i letti. Dunque non credo che la gente smetterà di leggere e di riflettere, a prescindere dal supporto. Che, nel caso del libro, ritengo essere ancora tecnologicamente perfetto.

La televisione, regina fra i medium di massa del secolo scorso, ha provocato in Italia una sciatta fusione fra popolarità televisiva e quella politica. Dalle gambe delle gemelle Kessler si è passati a quelle delle amiche di Berlusconi in politica. Fra i corridoi dei dipartimenti di sociologia si dice che in questa irresponsabile traiettoria ci siano di mezzo anche le pattinatrici del Drive In, inconsapevoli strumenti di un declino dei costumi che ha corroborato quello dei valori. Da zero a dieci questa analisi quanto ti fa incazzare?
Mi fa ridere e mi preoccupa. Pensavo che nei corridoi dei dipartimenti di sociologia circolassero persone in grado di elaborare teorie un poco più convincenti. Le Kessler e le pattinatrici di Drive In erano in televisione, le amiche di Berlusconi siedono in Parlamento e nei Consigli Regionali. Se qualcuno pensa che la responsabilità di questa evoluzione o involuzione che dir si voglia possa essere fatta risalire a una trasmissione di trent’anni fa, consiglio un periodo di corroborante lavoro in miniera. O una serie di sedute di analisi.


Politica e comunicazione. Qual è il nesso tra questi due campi, oggi?
La politica è al servizio dell’economia. E la comunicazione troppo spesso è al servizio della politica.  Quando si distruggono prodotti alimentari perché c’è una produzione eccessiva o quando il futuro di molte persone dipende dalla nevrosi dei mercati, c’è qualcosa che non va. La politica dovrebbe mettere un freno a tutto questo, e dovrebbe essere controllata da una comunicazione indipendente. Ma, come dicevo, la politica è al servizio dell’economia ecc. ecc.

Un cittadino italiano, se vuole denunciare un abuso, telefona al Gabibbo, e se sogna un elettroshock del Parlamento è costretto a sperare in Beppe Grillo. “Giullari al potere!”, grida da sempre Dario Fo. Il giullare Faletti come vede il futuro del proprio Paese?
Male, finché non smetteremo di dire che servono delle regole. Le regole ci sono, basterebbe che fossero applicate. Sogno un Paese dove un ministro che non spiega chi e perché gli ha pagato la casa finisce in galera.

Vito Catozzo, Carlino, Suor Daliso, il testimone di Bagnacavallo, Franco Tamburini, stilista di Abbiategrasso. Possibile che nessuno di loro ti abbia mai detto: “Minchia signor Faletti, è tempo di entrare in politica”?
Abbiamo una classe politica in Italia composta da persone che nella maggioranza non hanno un lavoro. Vale a dire che, se dovessero smettere di fare politica, non saprebbero che fare. Grazie a Dio io un lavoro ce l’ho, anzi più di uno. Il lato negativo di questa scuola di pensiero è che vivo in una situazione in cui andare a votare non basta. E, non essendo interessato a fare politica, sono costretto a subirla.


“Faletti è una testa di cazzo comunista”. Così ti ha definito Nicole Minetti durante una telefonata con il padre, qualche anno fa. Vuoi usare questa intervista per salutare la consigliere regionale della Lombardia?
No. Reazione comprensibile, da parte di uno insoddisfatto della propria vita…

Alessandro Berni

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Alessandro Berni

Alessandro Berni

Alessandro Berni, scrittore. Vive la critica d’arte come un genere letterario dentro il quale l’emozione anticipa e determina il senso dell’informare.

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