Bonami, dica la sua! Intorno alla Whitney Biennial 2012

Fra i presenti alla preview, un ospite speciale e previsto: Francesco Bonami. Al termine dell’opening, il già due volte curatore della Whitney Biennial, ha accettato di fare due chiacchiere sulla biennale e non solo. Eccovi cosa ne è uscito.

Qual è la tua opinione generale su questa edizione?
Mi sembra buona e che sottolinei come l’arte da una parte stia tornando alla dimensione intima dello studio, dall’altra rimanga sempre più dentro l’attimo veramente contemporaneo e irripetibile, il gesto, la parola, il suono. O sei lì al momento o perdi l’occasione di vedere ciò che è veramente contemporaneo.

Puoi segnalarci gli aspetti, le linee di continuità tra le scorse due biennali che portavano anche la tua firma e quella attuale?
Credo che ci siano aspetti che avevamo toccato con Gary Murayari e che sono stati variati, approfonditi, ampliati: il piano tutto di performance che segue l’idea del 2010 del piano dedicato al video. Andrea Fraser che occupa il posto occupato nel 2010 da Michael Asher, e Kai Althof che in versione più soft ripete il sipario d’entrata di Piotr Uklanski.

E gli elementi di discontinuità?
Non ci sono nomi come Charles Ray e George Condo, un po’ più di blue chip e non è stato usato il piano della permanente, il quinto, anche se la collezione ha delle incursioni nella mostra. Inoltre, noi avevamo solo artisti americani o che vivevano da lungo tempo in America. Stavolta il discorso si è ampliato oltre i confini americani.

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Whitney Biennial 2012

All’interno della Biennale 2012 c’è un artista o un’opera che si impone su tutti?
Beh, è quella di un “non artista” nel senso in cui lo intendiamo noi del mondo dell’arte, ovvero di Werner Herzog, qualcuno che con i suoi video esposti riesce a fare e parlare di arte, ma di un’arte completamente diversa da quella che ha attorno e che credo per la maggior parte ignori pure.

Baudelaire nel 1867 coniò il neologismo ‘americanizzare’, prevedendo che in futuro la meccanica avrebbe americanizzato il mondo. In particolare, gli artisti europei presenti oggi al Whitney sono tutti americanizzati o offrono peculiari elementi di identità nazionale?
Siamo tutti americanizzati. Pensa al sindaco di Firenze, Matteo Renzi!

Cos’ha fatto il sindaco di Firenze per meritarsi di farsi dare dell’americano?
Nulla, è lui che guarda sempre ai miti americani con grande e giusta ammirazione, sognando una Firenze newyorchese.

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Whitney Biennial 2012

Biennale è sinonimo di validazione critica, di consacrazione internazionale. Quest’affermazione ineccepibile settanta, cinquant’anni fa, in questo presente ha bisogno di essere ridefinita. Secondo Francesco Bonami, biennale oggi vuol dire…
Non più consacrazione dell’artista, ma del curatore. Biennale oggi vuol dire osservare, mostrare, scartare.

Usciamo dal Whitney. Il mondo dell’arte e del mercato globale riesce a esaltare in maniera astratta il concetto del qui e dell’adesso, ma stenta a riconoscere o favorire nuove avanguardie. Per intervenire su questa mancanza, il mondo curatoriale come può discernere o canonizzare un’avanguardia?
Non parlerei di avanguardia, ma di underground, concetto del tutto scomparso: se stai under, ci rimani. Tutti devono stare over, sopra, e possibilmente sopra gli altri.

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Whitney Biennial 2012

Quale sarà il prossimo movimento o artista underground che domani rischia di ritrovarsi over ?
Non ci sono movimenti underground. Oggi tutto è sulla superficie.

Nella tua carriera hai curato la Biennale del Whitney, quella di Venezia, oltre a musei e mostre di valore internazionale. Di solito, la mattina quando ti svegli, cos’hai voglia di fare?
Ho voglia di scrivere di qualcosa, qualsiasi cosa. Infatti Germano Celant spregiativamente mi chiama, quando m’incrocia, “lo scrittore”, non il curatore.

Alessandro Berni

whitney.org/Exhibitions/2012Biennial

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Alessandro Berni

Alessandro Berni

Alessandro Berni, scrittore. Vive la critica d’arte come un genere letterario dentro il quale l’emozione anticipa e determina il senso dell’informare.

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