L’immaginario della moda del fotografo Glen Luchford è in mostra a Milano. L’intervista
Poco prima del finissage di “Atlas”, la prima mostra personale milanese del fotografo inglese, Artribune presenta un contributo inedito e immagini mai esposte
Fotografo e ritrattista, dagli Anni ‘90 Glen Luchford (Brighton, 1968) ha ridefinito l’immaginario della moda tra editoriali e campagne con una grammatica visiva di taglio cinematografico. Un dialogo intimo che sposta il baricentro dall’immagine finita al momento in cui la decisione scatta. A 10 Corso Como c’è la prima mostra personale milanese dedicata all’autore, Glen Luchford. Atlas, aperta negli spazi della Galleria fino al 23 novembre 2025. Ne abbiamo parlato con l’artista.

Il “motore dell’immagine” per Glen Luchford
Non è l’oggetto compiuto a interessare Luchford, ma l’attimo che lo accende. Lo definisce “momento di ignizione” e lo lega a una figura semplice, quasi domestica: “Da molti anni sono ossessionato dall’idea che i lavori fondativi di Richard Serra si basino su una piccola sezione del centro di una ciambella. Se ci si ferma a studiarla si nota che quella forma non esiste altrove al mondo. Immagino il giovane Serra in una tavola calda di San Francisco che fissa il suo dolce circolare quando arriva il lampo. L’inerzia si trasforma in grande opportunità. Non è tanto l’opera a interessarmi, quanto ciò che chiamo “il momento di ignizione”. Solleva questioni su occasioni mancate o colte. Ognuno di noi riceve un momento-ciambella, dipende se abbiamo la fortuna di riconoscerlo”. Questa chiave orienta il percorso: cercare il punto d’avvio, più che il compimento.
La fotografia come “regia del movimento” secondo Glen Luchford
“Non ho avuto un’unica epifania, ma tre momenti decisivi nell’anno 1981 che mi hanno messo in cammino”. L’avvio è domestico: un videoregistratore e un film. “Il primo fu quando mio padre comprò il nostro primo videoregistratore e vidi Taxi Driver di Martin Scorsese. Non capii del tutto il film, ma c’era qualcosa di ipnotico nella sua modernità senza scuse e nell’uso magistrale del movimento di macchina, insieme alla colonna sonora inquieta di Bernard Herrmann che risaltava davvero. Scorsese non sta mai fermo, si muove costantemente come un valzer… Studiando Kurosawa, Fellini, Ford, Leone, Wong Kar-wai, Kubrick, trovavo in tutti un uso impressionante del movimento e un abbraccio del nuovo”. La lezione è operativa: la fotografia come regia del movimento, esplicito o evocato.
Cosa si vede in mostra a Corso Como 10
Curata da Alessio de’ Navasques, Atlas allinea in un’unica traiettoria più di trent’anni di immagini: editoriali, campagne, ritratti, outtake, ricordi e ripensamenti. È un progetto site specific disegnato dall’artista per la Galleria di 10 Corso Como come flusso filmico di libere associazioni. Grandi stampe e collage compongono un atlante mentale: le immagini sono nude, attaccate alle pareti come fotogrammi di montaggio, senza gerarchie cronologiche.
Sullo sfondo di una New York convulsa e in bianco e nero, scorre una giovanissima Kate Moss in uno shooting per Harper’s Bazaar; Amber Valletta appare sul Tevere al tramonto, poi in un labirinto innevato ricostruito a Cinecittà, o colta mentre spia dallo spioncino: sono le campagne per Prada (1996-1998), dense di rimandi a Kubrick, Tarkovskij, Lynch. Riappaiono le polaroid con Stella Tennant e Malgosia Bela, a consolidare una figura del femminile costruita per scarti minimi di tempo. Non mancano le collaborazioni successive con Vogue, Self Service, Arena, Another, Purple, V Magazine, Interview, e il ciclo con Alessandro Michele per Gucci, tra musical hollywoodiani, proteste del ’68 e fantascienza Anni Cinquanta. Accanto alla moda, i ritratti: Björk in chiaroscuro per The Face, e poi Willem Dafoe, Tim Roth, John Lurie. In mostra si ritrova anche la collaborazione con Jenny Saville che culmina in Closed Contact, serie in cui volto e corpo sembrano comprimersi contro l’obiettivo. Chiude il percorso un’installazione video inedita con i fashion film, dove l’ironia erode la convenzione.
Archivio e modernità nella fotografia di Glen Luchford
La matrice visiva nasce anche per contrasto. “Alla fine dei Settanta mio padre portò in casa ‘Amateur Photographer’ e rimasi deluso dalle immagini grigie… L’abuso del teleobiettivo appiattiva l’immagine, la privava di spinta. Più tardi, con una copia malconcia di Thrasher, fui colpito dalla sua attitudine “fottitene”: grafiche dai colori violenti, grandangoli spinti, primi piani distorti, come anarchia visiva. Mi piaceva moltissimo. Perfino l’iconico video Powell Peralta strizzava l’occhio al Futurismo con il titolo Future Primitive”. Questo lessico di prossimità e deformazione controllata attraversa l’allestimento, dove i frammenti d’archivio dialogano con le immagini celebri.
L’ultima matrice è sociale, quotidiana: “Il luogo di ritrovo più importante fu il club giovanile del quartiere… Avevamo mancato il Punk ma intercettato New Romantic, Goth, Skinhead e Ska, Mod, Casual e Psychobilly. Ognuno portava nuove mode e, soprattutto, nuove mosse di danza. A diciotto anni, quando scattai le prime foto, mi ripetevo che non avrei mai fatto immagini noiose come quelle viste su ‘Amateur Photographer’. Non mi importava se fossero pessime, non sarebbero state noiose. E poco a poco, passando dallo skate alla moda, il senso del cinema e del movimento è filtrato in tutto ciò che ho fotografato”. In Atlas questa regola è leggibile: invito a seguire la dinamica interna più che l’icona.
Alessia Caliendo
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