“La fotografia è un’arte del corpo”. Parola all’artista Alessandra Spranzi 

Per il nuovo appuntamento di “Dialoghi di Estetica”, la fotografa Alessandra Spranzi ci racconta il suo rapporto con la fotografia, con l’equilibrio e con la gravità

Alessandra Spranzi (Milano, 1962) ha iniziato a lavorare in ambito artistico nei primi Anni Novanta. Ha studiato alla Scuola Politecnica di Design e all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove attualmente è docente di Fotografia. La sua ricerca artistica si basa sulle possibilità della fotografia attraverso immagini proprie o altrui, il collage, il video e l’esercizio di ottenere fotografie di fotografie. Il suo lavoro rivela un gusto per i materiali umili, la quotidianità, gli ambienti domestici, gli oggetti trascurati e obsoleti, il lavoro manuale e i suoi gesti. Attraverso appropriazioni e minime manipolazioni, Spranzi si interroga sul mistero dell’esistenza, sulle forze fondamentali che agiscono quotidianamente, sugli oggetti e sugli spazi in cui agiamo. Tra le sue ultime mostre: Il quale cerca solamente la bellezza, nel modo qui descritto (Casa Morandi, Bologna 2025); Sul tavolo (The Women’s Darkroom + Gallery, New York, 2024); Egli rincorre i fatti come un pattinatore principiante, che per di più si esercita dove è vietato (P420, Bologna, 2023); Numero Speciale (COMMERCE, Milano, 2023); les yeux les oufs, les jeux (IUNO, Roma, 2022); Ogni giorno (LCA Studio Legale, Milano 2021). In questo dialogo vengono messi in luce alcuni aspetti della poetica di Spranzi: i modi dell’approssimazione, l’idea della fotografia come arte del corpo e del caso, il ruolo dell’equilibrio del rigore e degli accadimenti.

Alessandra Spranzi. Courtesy A. Tivoli
Alessandra Spranzi. Courtesy A. Tivoli

Intervista ad Alessandra Spranzi 

Vorrei iniziare da un fatto. O meglio, da una tua disposizione che provo a chiamare ‘duplice’ e che sono convinto si possa riconoscere osservando le tue fotografie: il tuo avvicinamento a un soggetto che poi sarà fotografato si basa sulla giusta distanza a cui ti poni. Penso sia una disposizione duplice perché è un modo che hai per “registrarti attraverso la distanza”, per calibrarti rispetto alla riuscita del tuo lavoro mentre ti avvicini ai tuoi oggetti di indagine. 
Assolutamente. Penso si tratti di riuscire a riconoscere il ruolo che hanno le misure. Spesso mi sono ritrovata nella posizione di stabilire delle relazioni basandomi principalmente sul corpo. Come hai ben colto, si tratta di trovare la giusta distanza, di farmi guidare da quelle misure. Per me è necessario riconoscere una giustezza in termini di approssimazione, tra me le cose e lo spazio in cui lavoro. Vicino e lontano, opaco e trasparente. 

In fondo, i rischi si presentano nella loro nettezza proprio quando ci avviciniamo o ci allontaniamo troppo. 
Non a caso, infatti, penso alla fotografia come a un’arte del corpo che si basa su questo continuo tendere verso qualcosa e potersi posizionare nel giusto modo. Disporsi. E anche su questo punto ti seguo: il rischio – almeno per me – è di fare qualcosa di descrittivo, un esito che non mi interessa. Sicuramente quello che faccio con le immagini può essere pensato come un lavoro di raffinamento, un distanziamento ma, in fondo, si tratta di un moto continuo di approssimazione, un andare incontro alle cose e alle immagini. 

Come riesci a trovare il giusto posizionamento? 
È qualcosa che sento, se è giusto o sbagliato, che mi appare evidente. Cioè, sento facendo. Il caso è altrettanto parte del gioco: si prende, e gli lascio, ampio spazio; ha una sua voce. Ripetendomi, accade. Ma c’è un aspetto importante: le cose che possono essere toccate richiedono movimento, attività, misurazioni, gesti, attenzione. A me piace maneggiare le cose – anche le immagini, un altro tipo di cose. Sono dell’idea che il mio lavoro si possa descrivere con la semplice frase “avere le mani in pasta” (o come si scrive sui pacchi: Don’t drop, handle with care), perché per me si tratta anzitutto di una quantità innumerevole di attività che seguono l’una dall’altra: infatti continuo a spostare cose, a cercare elementi utili per il lavoro, sono immersa in un flusso di intensa attività. 

Alessandra Spranzi, La donna barbuta #6
Alessandra Spranzi, La donna barbuta #6, 2000. Courtesy P420, Bologna

L’equilibrio nelle fotografie di Alessandra Spranzi 

Vorrei considerare un esito che potrebbe essere anche solo temporaneo, ma che è altrettanto ricorrente nelle tue fotografie: l’equilibrio.  
La maggior parte del mio lavoro è fatto – almeno, a me sembra – di piccoli movimenti e piccole dichiarazioni, cioè di qualcosa che non è una grande rivelazione; ossia, sono modi per dire che qualcosa può essere posizionato anche un poco più in là… Penso allora alla gravità: quella forza che accompagna lo svolgersi delle attività e che entra dentro alle cose che guardo o faccio. Della gravità mi piace che, in fondo, se ne può non parlare: possiamo anche non dire niente su di essa, perché tanto c’è. Ecco, l’equilibrio lo associo allora a questa forma utopicamente positiva della gravità: è qualcosa come un pezzo del nostro naturale tentativo di mantenerci diritti, di stare in piedi. Lo conosciamo perché troviamo, o cerchiamo, continuamente un baricentro. Lo troviamo e lo perdiamo, dondolando sulla terra che gira. 
 
Eppure, anche quando lavori al confine tra reale e surreale, a risaltare nelle tue opere sono proprio le intermittenze dell’equilibrio. Ma capisco che possa essere una questione ardua.  
Lo è perché implica che vi siano alcune cose necessarie: per esempio, due corpi per essere in equilibrio hanno bisogno di determinate condizioni che possono benissimo non essere permanenti, poiché sono precarie a loro volta, difficili da raggiungere per svariate ragioni. C’è una bellezza particolare in questo equilibrio. Mentre te lo dico, mi torna in mente una frase all’inizio di un romanzo di Thomas Bernhard: “Perché un corpo sia stabile è necessario che abbia almeno tre punti d’appoggio”. Tre, tantissimi. Il caso aiuta. Penso a questa condizione ancora una volta come alla affermazione di una misura, ossia una dichiarazione circa le difficoltà che abbiamo nel riuscire a trovare un equilibrio. 
 
Un pezzo di questa storia dell’equilibrio passa attraverso di noi, anche quando non siamo pronti a dire sia così. 
Avere tre punti d’appoggio, messi non in linea retta è qualcosa di sorprendente ma anche di estremamente difficile. Vuol dire spostare le cose per riuscirci, mettere in azione una serie di operazioni utili per quello scopo. E sempre, mi pare, arriva qualcosa di inaspettato, come fosse un’apparizione. Tolgo qualcosa o aggiungo altro, per vedere come stanno su le cose o come si trasformano le immagini. E nel gioco di queste intermittenze si palesa anche la caduta. 

Alessandra Spranzi, Quando la terra si disfa #10
Alessandra Spranzi, Quando la terra si disfa #10, 1995-96. Courtesy P420, Bologna

Alessandra Spranzi, tra caduta e libertà 

Essa, però, non è che un esito possibile. Perché nel tuo lavoro risalta altrettanto quanto sia importante per te che le cose vadano liberamente, come devono. 
Dipende sempre dal tipo di caduta, se non è troppo rovinosa poi ci si può rialzare. Ma di nuovo, mi hai fatto venire in mente un mio testo (scritto per il ciclo di fotografie Tornando a casa, del 1997, con il quale parlavo di alcuni incendi domestici) in cui scrivevo: “la mano non si muove a cercare l’acqua” per andare a spegnere il fuoco. Questo modo che ho di lasciare che le cose accadano credo sia tutt’uno con una certa indolenza naturale e il mio piacere (forse, piacere d’infanzia) di vedere poi che cosa succede, di attendere l’esito di quel cambiamento delle forme. Qualcosa va in frantumi o si modifica e nasce allora il mio lasciare un tempo e uno spazio a quanto accade, aldilà del mio intervento. 

Torniamo un attimo alla gravità. È qualcosa che ha a che fare con la possibilità di sospendere le cose e nel tuo lavoro si vede bene, poiché ciò che sembra interrotto appare invece come un segno della continuità. Ho l’impressione che, infatti, quando tu sospendi qualcosa non lo interrompi.  
È vero, va così. Le cose possono stare sospese ma ciò accade comunque in un movimento, attraverso più fatti che si verificano e fanno parte di tutta quella attività in cui sono coinvolta. A essere importanti per me sono gli accadimenti. Come dicevo, mi piace lasciare andare, invitare, ancora una volta le cose o le immagini a prendere una forma o una direzione loro. Per esempio, il fuoco brucia ed è bello stare a guardare, ipnotizzati, immobili. 

Ma la riuscita delle tue opere sono convinto si debba anche al ruolo che assegni al rigore. Anche se, esso non è che uno sprone per mettere in discussione il farsi stesso della fotografia mentre la pratichi. 
Hai ragione, perché quella che vivo con la fotografia è una relazione oscillante. La tua osservazione sul rigore è molto giusta: da una parte c’è un braccio di ferro che devo naturalmente fare con la fotografia e con le immagini che trovo – e in quel caso devo essere estremamente precisa su tutto, esattamente per decidere cosa tenere e cosa lasciare, seguendo un tipo di precisione veloce, assoluta, non razionale; dall’altra, per me si tratta di riconoscere qualcosa come l’inutilità che appartiene naturalmente alle immagini fotografiche. Il rigore è fondamentale proprio perché mi concede di poter stare nella fotografia, di praticarla entro questa dinamica. 

Il mondo quotidiano nelle fotografie di Alessandra Spranzi 

Allo stesso tempo, sono dell’idea che sia altrettanto decisivo il tuo peregrinare: non un girare a vuoto, ma un girovagare per posizionarti. Da esso, forse, trae origine il tuo interesse per la dimensione ordinaria della vita quotidiana: penso a una tua fotografia Sedia appoggiata su tovaglia bianca, che credo mostri bene quel grado zero della realtà che ti cattura e ti muove. 
In parte, è proprio come dici. Perché, in fondo, non posso che guardare la realtà: vado per strada, mi guardo attorno, mi soffermo su qualcosa… Ma la realtà è comunque difficile, agita anche una indifferenza, difficile da attraversare e da prendere. O forse, si tratta di includere per un attimo qualcosa con cui entri in sintonia ammettendo, però, che poi quel momento lo si supererà. 
 
Che cosa succede quando si crea quella sintonia?  
La sedia che citi è di una trattoria in una via vicino a casa che ho visto e rivisto molte volte. Poi un giorno ne sono rimasta colpita. La sedia in quella posizione, il tavolo: si trattava di un insieme di oggetti che appartenevano al mio quotidiano, come le strade che percorriamo tutti i giorni, ma che tutt’a un tratto hanno una luce diversa. Come una apparizione, un’epifania, succede qualcosa di mai visto, da prendere con precisione prima che sparisca tornando quello che era: uno dei tavoli della trattoria con una sedia appoggiata. Mi piace pensare a una “vedenza”, un vedere improvviso, acuto. 
 
Un modo per stare nel mezzo, tra il possibile e ciò che è dato. Ma stare nel mezzo per te, sembra voler dire attraversare quella stessa posizione: ossia, fai passare l’esigenza di collocarti, prendere le misure giuste e trovare la tua posizione, la saturi e poi ti interessi ad altro. 
Certo, perché quella foto (per esempio, quella della sedia) è fatta, ho trovato un senso. Qualcosa che è insieme chiaro e indecifrabile. Questa circostanza è per me importante. Un modo per descriverla è forse riprendere un pezzo del titolo della mia mostra alla galleria P420, ossia di una frase di Kafka che dice “Egli rincorre i fatti come un pattinatore principiante, che per di più si esercita dove è vietato”. Ecco, “dove è vietato” è la condizione che sento mia: esercitarsi un po’ più in la, ossia dove non dovresti, non è tanto una questione di trasgressione ma di profondità stessa dell’esercizio, di libertà. 
 
Davide Dal Sasso 
 
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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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