Il progetto fotografico ispirato al primo santo nero della storia

Prende le mosse da San Benedetto il Moro, e dalle tante declinazioni del suo culto in vari angoli del mondo, il progetto fotografico ed editoriale di Nicola Lo Calzo, in mostra ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia nell’ambito di Fotografia Europea 2022

Nell’iconografia popolare sacra indossa il saio francescano, scuro come il suo volto, ha l’aureola e tiene in braccio il Bambino Gesù. È San Benedetto il Moro (1524-1589) detto anche Benedetto da San Fratello e, tra le varianti, San Benito de Palermo e São Benedito, primo santo nero della storia e patrono (con Santa Rosalia) della città di Palermo: viene festeggiato il 4 aprile. Dietro il suo sguardo mite si cela la forza della resistenza: lui stesso ex schiavo, figlio di schiavi africani, assurge a simbolo di riscatto. Per Nicola Lo Calzo (Torino, 1979; vive a Parigi) ‒ autore del lavoro fotografico Binidittu (con lo stesso titolo nel 2021 è stato pubblicato il libro dalla casa editrice L’Artiere) esposto ai Chiostri di San Pietro, tra le mostre di Fotografia Europea 2022 (fino al 12 giugno 2022) ‒ la sua scoperta avviene in Colombia, nell’ambito del progetto di ricerca Cham che porta avanti dal 2010 sulle tracce dello schiavismo e delle sue resistenze tra Africa, Caraibi e America. “Nato come progetto fotografico, è diventato un progetto di dottorato di ricerca all’École Nationale Supérieure d’Arts de Paris-Cergy” ‒ spiega il fotografo e ricercatore. “Sto tentando d’incrociare la pratica fotografica con gli studi postcoloniali, di genere, anche di antropologia ed etnologia per produrre, questa è l’ambizione del dottorato, una fotografia riflessiva postcoloniale che possa congiungere l’etica all’estetica”.

Sangare Moussa, Malian rap singer and an asylum seeker, behind the statue of Nicolò Turrisi Colonna, mayor of Palermo from 1880 to 1887. Photograph taken behind the scenes of «Un giorno, questi volti» a film by Martino Lo Cascio. «Golden Room», Palermo dal 1880 al 1887, ph Nicola Lo Calzo

Sangare Moussa, Malian rap singer and an asylum seeker, behind the statue of Nicolò Turrisi Colonna, mayor of Palermo from 1880 to 1887. Photograph taken behind the scenes of «Un giorno, questi volti» a film by Martino Lo Cascio. «Golden Room», Palermo dal 1880 al 1887, ph Nicola Lo Calzo

INTERVISTA A NICOLA LO CALZO

Partiamo dal nome Binidittu che dà il titolo alla mostra e al libro…
È il modo in cui, in maniera familiare e un po’ più intima, in Sicilia i devoti chiamano San Benedetto il Moro. Questo santo è conosciuto in molteplici modi in tutto l’Atlantico “nero”, essendo, appunto, un “santo nero” il cui culto è molto più diffuso in America ‒ dal Venezuela al Brasile, dalla Colombia al Messico ‒ di quanto non lo sia in Sicilia. Il suo culto nasce a partire dalla figura storica di Benedetto Manasseri, afrodiscendente, nato nella Sicilia del Cinquecento che allora era anche terra di schiavitù. I suoi genitori erano schiavi di proprietà della famiglia Manasseri, ma attraverso una serie di vicissitudini Benedetto diventa taumaturgo-guaritore e beato, fino a essere canonizzato duecento anni dopo la sua morte, nel 1807, con uno dei più lunghi processi di canonizzazione della storia della chiesa. Ho cercato di creare delle risonanze tra la figura storica dell’uomo Benedetto Manasseri, al di là del santo afro-italiano la cui storia, per una serie di cause, è stata “invisibilizzata” fino a sparire completamente dall’immaginario italiano, mettendola in dialogo con l’esperienza della diaspora africana e subsahariana che vive oggi in Sicilia e che ha incontrato San Benedetto in circostanze diverse, tra cui le associazioni per la lotta per i diritti dei migranti, le associazioni di accoglienza, l’ARCI.

Qual è stata l’evoluzione del progetto?
Il progetto è iniziato nel 2017 ed è andato avanti fino al 2019. Tutto il mio lavoro è sviluppato intorno alle diaspore africane nel mondo, e a come queste abbiano prodotto delle pratiche culturali di resistenza di fronte allo schiavismo e al colonialismo. La mia prima idea, quindi, è stata quella di raccontare il culto di Benedetto com’è oggi in Sicilia, dopo averlo scoperto in Colombia mentre lavoravo sulle comunità afrodiscendenti. Dopo quest’inizio legato più al culto e alla dimensione religiosa, mi sono reso conto che il santo era un simbolo politico per le comunità afrodiscendenti, sia in America Latina che in Sicilia. C’è una riappropriazione della figura di Benedetto da parte della società civile, che la propone come simbolo di lotta contro il razzismo e le discriminazioni, insomma un simbolo di humanitas. Ho cercato di lavorare tra questi due universi che a volte s’incrociano, si vedono e altre volte non si vedono, affrontando anche i conflitti e le contraddizioni. Il mondo dei devoti da una parte e quello della diaspora subsahariana dall’altra. Due mondi che vivono e coabitano negli stessi territori, nelle stesse geografie.

Ripercorri con noi questa geografia?
Si comincia da “locu ri nascita” a San Fratello, in provincia di Messina, dove Benedetto è nato e vissuto fino a vent’anni, per arrivare a “locu ri morti” a Palermo, nella borgata di Santa Maria di Gesù dove c’è il convento che lui stesso ha costruito e dove sono custodite le sue reliquie.
La cosa interessante di questa storia, che è anche tra i motivi per cui ho deciso di lavorarci, è che il culto di Benedetto è stato voluto soprattutto dal popolino palermitano senza alcun accordo con le autorità ecclesiastiche. Anzi, contro la volontà della chiesa, il popolo palermitano si recava al convento di Santa Maria di Gesù per poter incontrare questo frate nero e chiedere la guarigione. Soltanto in un secondo momento l’aristocrazia spagnola ha capito il potenziale che aveva questa figura di santità per la conquista dell’America e l’evangelizzazione delle popolazioni da ridurre in schiavitù. Ma non era stato messo in conto che le stesse popolazioni in schiavitù si sarebbero riappropriate del culto in una maniera completamente inedita, facendo di Benedetto una figura di resistenza ed emancipazione. Un santo che è nato come strumento di potere e conquista ma che è diventato strumento di riscatto. Una figura policentrica che cambia di significato in funzione di come la si guarda.

Ernest, artista togolese e residente a Palermo © Nicola Lo Calzo

Ernest, artista togolese e residente a Palermo © Nicola Lo Calzo

SAN BENEDETTO IL MORO TRA PASSATO E PRESENTE

Il lavoro fotografico stesso è uno specchio della complessità del progetto: vediamo generi diversi, dal ritratto al reportage.
Il ritratto nasce dalla collaborazione con i ragazzi, rifugiati o con statuti diversi, che ho incontrato in Sicilia. Spesso sono giovanissimi e hanno la vocazione di diventare artisti, musicisti, danzatori o attori, partecipando ad attività di tipo culturale organizzate dalla società civile in attesa che trovino un lavoro. È stato naturale andare verso degli artisti come me ed è stata anche una maniera per incontrarci. Soprattutto quando faccio ritratti è importante che ci sia un punto di sincronizzazione con le persone che fotografo. Naturalmente ci sono anche immagini che sono documentarie. Il ritratto di Frate Dieudonné Benedetto potrebbe sembrare una messinscena, invece è una foto documentaria che ho realizzato in occasione di una testimonianza che questo frate nato in Costa d’Avorio e arrivato in Sicilia sul barcone, nella rotta dei migranti, ha dato al convento di Sant’Antonio a Bagheria dopo un violento attacco razzista. Ha raccontato di essere stato accolto nella comunità e di aver ricevuto la vocazione, in seguito alla quale ha deciso di prendere i voti e farsi ribattezzare Frate Dieudonné Benedetto proprio in omaggio a San Benedetto il Moro. Per me era abbastanza metaforico perché l’abito ‒ l’habitus ‒, come dice anche lui nell’intervista che ho raccolto, lo protegge anche oggi. Senza l’abito francescano è solo un migrante, diventa invisibile. Ho cercato da fare un parallelo con Benedetto per il quale, nel Cinquecento, l’habitus era stato una maniera per sfuggire a una condizione sociale precaria o addirittura dalla schiavitù.

Nelle foto documentarie c’è, in particolare, il racconto della devozione che entra nel quotidiano.
A differenza del culto americano che è sincretico perché portato da comunità afrodiscendenti, quello siciliano è cattolico nel senso rigido del termine. Nelle interviste che ho fatto con la gente del posto Benedetto è presentato innanzitutto come santo locale ‒ il loro santo ‒, la cui genealogia africana non è importante. Mi sono posto una serie di domande sul perché non lo fosse. Le ragioni sono molteplici, da una parte storiche, perché nella Sicilia del Settecento con l’esplosione della tratta atlantica la presenza africana diminuisce fino a quasi amalgamarsi con la popolazione locale. Tanto che nei racconti orali il colore della pelle di Benedetto non è ricondotto all’Africa ma è spiegato con delle leggende. Ce n’è una in cui si racconta che viene messo nell’acqua bollente per distrazione e la mamma, nel tirarlo fuori, si rende conto che il figlio è diventato nero. Un’altra, invece, ha una dimensione più legata alla costruzione della razza, tanto che non a caso la chiesa ha aspettato duecento anni per canonizzarlo. La mia idea non era di parlare di whitewashing come si potrebbe fare, ad esempio, in un contesto americano, perché siamo in un territorio come la Sicilia, storico carrefour di popolazioni di origini completamente diverse, con le sue realtà e contraddizioni. Non bisogna cadere né in una visione completamente romantica di una Sicilia in cui tutti si vogliono bene, né in quella stereotipata di un’Italia razzista. Bisogna mettere in conto che queste due esperienze convivono.

Consideri Binidittu un lavoro concluso con la pubblicazione del libro o si tratta di un capitolo all’interno di un progetto ongoing?
Il libro è stato fatto per raccontare questo progetto che però s’inscrive in una ricerca che porto avanti da dieci anni e che non è ancora conclusa. Adesso sto lavorando in Brasile sulle comunità afrodiscendenti dove ho trovato che il culto di São Bento, come lì viene chiamato San Benedetto, è molto presente soprattutto tra i discendenti degli schiavi fuggitivi, i “quilombo”, nello stato di Bahia e Maranhão. Credo che se avessi scoperto la figura di San Benedetto all’inizio della ricerca sullo schiavismo e sulla resistenza avrei certamente costruito tutto il progetto intorno a questo filo conduttore. Ma ci sono arrivato a metà strada, quando ero in Colombia, come dicevo prima. Perciò ogni capitolo di questo progetto che si chiama Cham ha una sua identità e, allo stesso tempo, vive insieme agli altri.

Manuela De Leonardis

http://www.nicolalocalzo.com/

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Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Dal 1993 è iscritta all’Ordine dei giornalisti del Lazio e dal 2004 scrive di arti visive per le pagine culturali del manifesto e gli inserti Alias, Alias Domenica, ExtraTerrestre.…

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