Il Festival della Fotografia Etica di Lodi non difende i bimbi discriminati. Un artista si ritira

Il senso della responsabilità politica e civile in un momento storico difficile. A Lodi si discriminano bambini stranieri, con norme scritte ad hoc, che un legalitarismo ottuso prova a giustificare. Ma dal festival cittadino nessuna voce si leva, mentre tutta Italia ne parla…

Punta lo sguardo sull’attualità, il Festival della Fotografia Etica di Lodi. E sulle emergenze sociali e geopolitiche che a tutte le latitudini si contano e si scontano. Reportage, racconti, inchieste, riflessioni lungo i margini e osservazioni sul campo: l’evento, in corso fino al 28 ottobre, si avventura (non senza rischi) fra i sentieri dell’”ethos” e del suo rapporto con l’immagine, per rimarcare quanto e come la fotografia debba confrontarsi con la questione dei comportamenti umani, dei valori condivisi, dei diritti inalienabili, delle forme delle istituzioni e di ciò che orienta – nel dissidio tra bene e male – i destini di ogni società.
Mostre, letture di portfolio, workshop e un premio internazionale, per un format tra i più classici che sceglie un claim chiarissimo: “Quando la fotografia parla alle coscienze”.
Ed ecco, ad esempio, la sezione “Uno sguardo sul mondo”, dedicata agli eventi più recenti, tra guerre, conflitti, terrorismo, catastrofi naturali; oppure lo Spazio “No Profit” riservato ai reportage – a volte durissimi – commissionati da ONG e associazioni umanitarie: basti pensare al capitolo migranti, che migliaia di artisti e reporter stanno trasformando in un’immensa narrazione visiva. Quasi un progetto globale di letteratura per immagini, confezionato da un capo all’altro del pianeta.

L’IMBARAZZANTE VICENDA DEI BAMBINI DI LODI

E proprio Lodi, cittadina lombarda guidata da un’amministrazione leghista, è stata per settimane sotto i riflettori per via di un caso di minuta amministrazione locale, dalla portata simbolica importante. Com’è noto, la zelante Sindaca Sara Casanova ha richiesto una regolamentazione ad hoc per i bambini stranieri che frequentano le scuole elementari. Non basta l’ISEE per accertare la condizione economica delle famiglie e concedere tariffe agevolate per scuolabus e mensa. Servono specifici documenti per verificare la situazione patrimoniale nei Paesi d’origine. Documenti spesso irreperibili: distanze geografiche, situazioni di guerra, instabilità e caos amministrativi rendono la missione difficile, se non impossibile. Ma i genitori, disoccupati o con reddito molto basso, non riescono a pagare. Risultato: decine di figli di immigrati rimasti a piedi e costretti a mandar giù un panino in solitudine, mentre i compagni “bianchi” pranzano allegramente in mensa.
Dopo l’esplosione della vicenda sui media, l’indignazione è montata fino a far scattare la gara di solidarietà: 90mila euro raccolti in pochi giorni a copertura delle quote mancanti. Giustizia è stata fatta. Ma a Lodi resta un’ombra, una memoria pesante, nonostante gli endorsement del Ministro Matteo Salvini e dei molti difensori di un nuovo legalitarismo, edificato sul motto del momento: “Prima gli Italiani”.

Tomaso Clavarino, dal progetto Prophets and Profits

Tomaso Clavarino, dal progetto Prophets and Profits

UN ARTISTA ABBANDONA IL FESTIVAL: ALTRO CHE ETICA!

La domanda è dunque lecita, nella coincidenza esatta di tempi e di contesti. Può disinteressarsi della vicenda giusto un festival che si occupa di attualità, di razzismi e di conflitti sociali, e che da quasi dieci anni lo fa nel luogo del “misfatto”? Secondo il fotografo Tomaso Clavarino no. Non è pensabile, non è opportuno. Niente di “etico”, per l’appunto. Un suo lungo post, pubblicato lunedì 22 ottobre su Facebook, fa il punto sul “ruolo della fotografia come strumento politico, culturale ed educativo” e manifesta il senso di un’insofferenza profonda. Invitato alla mostra connessa al Premio Voglino, ha così deciso di ritirarsi. “In questi giorni”, scrive, “ho avuto modo di parlare e confrontarmi con gli organizzatori del Festival della Fotografia Etica in merito a quella che per me è stata una loro non presa di posizione su fatti gravi che ci devono far interrogare sul presente e sul futuro del nostro Paese. Fatti che a mio modo di vedere richiedono risposte forti, decise”. Quindi, la proposta: alla direzione aveva chiesto di “cogliere l’occasione di un panel/giuria composto da alcuni dei nomi più importanti della fotografia italiana per discutere, anche sul ruolo che può avere la fotografia in un momento come questo, e prendere, nel caso l’avessero ritenuto opportuno, una posizione chiara, forte”.
Nessuna risposta da parte del Festival. Nessuna comunicazione ufficiale, iniziativa o riflessione pubblica. Eppure per il caso Lodi si sono mossi giornalisti, istituzioni, partiti, associazioni, comitati civici, semplici cittadini, alimentando un dibattito infuocato intorno al tema del razzismo e del rispetto delle norme, quando le norme – tuttavia – non sono altro che un surplus di burocrazia, utile a offrire recinti, logiche e strumenti a un’intenzione politica. Apparati burocratici al servizio di apparati ideologici. Certo, la legge è legge. Ma quale legge? Pensata secondo quale ratio e con quale obiettivo?
Ho quindi chiesto stamattina”, prosegue Clavarino, “con un’email inviata al Premio e al Festival, di ritirare la mia mostra dal programma, da oggiMi spiace essere dovuto arrivare a questa scelta, drastica, ma sono sempre più convinto, nonostante io sia aperto al dialogo e all’ascolto di voci, idee e pensieri altrui, della necessità di una presa di posizione non fraintendibile”.

Tomaso Clavarino, dal lavoro Confiteor esposto a Lodi

Tomaso Clavarino, dal lavoro Confiteor esposto a Lodi

ESSERE CONSAPEVOLI, NON SOTTRARSI. UNA NUOVA SENSIBILITÀ?

Clavarino è uno che a schierarsi e mettersi in gioco è abituato. Tanti i servizi e le inchieste per testate internazionali, su fatti drammatici e in territori estremi. Nel 2017, per dirne una, pubblicò in Olanda un reportage sui gruppi paramilitari fioriti nei Paesi Baltici, documentando l’addestramento metodico di minorenni. Subì per questo minacce di morte, articoli intimidatori e accuse pesantissime da parte delle istituzioni estoni.
Poca roba saranno dunque le critiche che certo arriveranno dopo la decisione presa a Lodi: “un altro in cerca di visibilità”, “la politica lasciatela fuori dall’arte”, “il solito buonista”, e via così, tra luoghi comuni e qualche spunto sulla necessità di spingere la cultura verso i territori roventi della cronaca e al centro dell’agone politico. Necessario forse no, ma auspicabile, in certi casi, sì.
Esiste un sentimento condiviso tra chi percepisce oggi un imbarbarimento lento dei costumi, un’anestesia delle coscienze. Ed è forse una frequenza mentale ed emotiva che le generazioni di mezzo, come quelle più giovani, iniziano a percepire: dire, denunciare, scegliere, assumersi il peso, misurarsi col lato oscuro e con quello virtuoso dello scontro, anche sul piano di una rifondazione linguistica, poetica, estetica, filosofica, non sempre e non solo squisitamente politica. Oppure con scelte radicali, simbolicamente forti.
Qualche volta sottrarsi equivale a esserci. La soluzione proposta da Clavarino, del resto, era sensata: non una manifestazione in piazza, non un’azione partigiana, ma un’occasione per porgersi domande rispetto all’essere artisti e intellettuali in un tempo scandito da crolli, muri, pregiudizi, diffidenze, e dall’eclissi di un principio autenticamente (e non demagogicamente) democratico. E invece, il Festival di Lodi, ha preferito tacere.
Quanto c’entra il fatto che il Comune sia sponsor dell’evento? Un’ipotesi triste: perché rimediare un po’ di fondi e spazi, utili a organizzare una manifestazione indipendente, e poi rinunciare a una riflessione pubblica al margine di un conflitto così prossimo, così incalzante? Ecco l’ultima – o forse l’originaria – questione: a cosa serve, in questo preciso momento storico, fare mostre, produrre opere, imbastire progetti, festival, biennali? A chi serve (ammesso che debba ‘servire’ a qualcosa)?
S’intravedono l’urgenza e la possibilità di trasformare, in certi casi, gli spazi di lettura e di scrittura in occasioni di resistenza, di testimonianza, di proposta, di sentimento e responsabilità comune. Oltre il vincolo cronachistico o la retorica fintamente militante. Guardare al presente e alla storia, semmai, come nutrimento più o meno visibile, più o meno sotterraneo, per tutte le visioni, le pagine, i simboli e le forme che verranno. Interrogarsi è già qualcosa.

– Helga Marsala

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

Scopri di più