Alex Majoli e la fotografia

Tre i piani del MAR – Museo d'Arte di Ravenna, molti di più i piani di lettura possibili: è il volume, fisico e soprattutto intellettuale, occupato dagli scatti presentati da Alex Majoli, membro di Magnum Photos, nella sua città natale.

Non chiamiamola retrospettiva: degli oltre duecento scatti esposti, quelli iconici e già noti a livello internazionale non saranno più di trenta, e sempre frammisti a immagini meno conosciute o addirittura inedite. Selezionando le stampe per questa mostra, a un’indagine storiografica sul proprio lavoro Alex Majoli ha preferito condurre una ricerca nelle proprie memorie e visioni, componendo un affresco sociale variegato (“Non è che l’Italia mi stia stretta, è che il mondo è largo”, si giustifica lui) tanto denso di interrogativi quanto carente di risposte facili.
Per questo, vi consigliamo di non definire “fotoreporter” Alex Majoli. Lui, che è già parte della storia del fotogiornalismo, con l’allestimento di Andante dimostra quanto sia ormai autoriale la produzione contemporanea di immagini, anche a un livello che potrebbe passare per documentario. Chiamarlo artista, allora? “Non sono un artista: dopo Duchamp, tutti siamo artisti. Non sono neppure fotogiornalista, dal momento che non credo nella fotografia in quanto documento della realtà; la fotografia è una questione molto soggettiva. Siccome la gente ha bisogno di etichette, mi definisco ‘uno che fa fotografie’”.
Majoli “lo fa” da oltre tre decadi: in mostra ha portato scatti che risalgono al 1985, ma di quel decennio l’evento più noto risale a quattro anni dopo, quando – già professionista – si recò nell’allora Jugoslavia a documentare la guerra civile. Classe 1971, bastano due calcoli per comprendere come sia (stato) un enfant prodige per definizione. Eppure, non sembra ancora rendersene conto. Se gli si chiede come gli sia venuto in mente di partire per una zona di guerra a meno di vent’anni, risponde di aver scelto la penisola balcanica “perché era vicina: era qua dietro, era facile da raggiungere con la Ritmo. Più facile che andare in Africa o in Nicaragua”.

Alex Majoli, Brazil. Serra de Santana, 1995 © Alex Majoli

Alex Majoli, Brazil. Serra de Santana, 1995 © Alex Majoli

MENO SENSAZIONALISMO, PIÙ AUTORIALITÀ

Nonostante da allora abbia visitato l’Afghanistan, l’Iraq della seconda Guerra del Golfo e la Libia durante la sua prima guerra civile, Majoli non si è mai identificato con la fotografia di guerra tout court. Oltre ai servizi commissionatigli – ad esempio come reporter per Newsweek – ha scelto di osservare anche altri scenari, più o meno intimi e “nascosti”.
Già nel 1994 raggiunge la notorietà con il libro Leros, reportage della chiusura dell’agghiacciante manicomio sull’omonima isola greca, dove i pazienti psichiatrici erano tenuti prigionieri in condizioni inumane. Invece di insistere sulla denuncia degli abusi passati, Majoli sceglie di mostrare il recupero psicologico degli ospiti a Leros. Rifuggendo il sensazionalismo, perché “è pornografia. Io ho una quantità enorme di fotografie di malati di mente nudi, che compiono atti osceni. Ma se te le mostro, che cosa ottengo? Non ti ho raccontato niente. Quei negativi non sono mai stati pubblicati e credo mai lo saranno. L’ho fatto, ho scattato quelle immagini. Ma divento davvero fotografo quando edito, non prima.

Alex Majoli, Child in Santeiro, Brazil, 1999, Roque Santeiro © Alex Majoli

Alex Majoli, Child in Santeiro, Brazil, 1999, Roque Santeiro © Alex Majoli

IL RITMO “ANDANTE” DELLA MOSTRA

Il primo livello della grande mostra orchestrata dallo stesso Majoli, corrispondente al piano terra del Mar, è una sua interpretazione contemporanea dei danteschi gironi infernali. All’ingresso del percorso, ad accoglierci non c’è Caronte in persona, ma poco ci manca: la prima immagine raffigura, in grande formato, uno di quei barconi che salpano dalla Libia e da altre coste del Nord Africa alla volta dell’ignoto. I con-dannati della nostra epoca sono loro, i tanto discussi migranti che attraversano continenti e tutto un Mediterraneo nella speranza di una vita migliore, troppo spesso andando incontro alla morte.
Tra gli shabab – termine usato da Majoli invece di “ragazzi”, lapsus che parla di una lunga abitudine a imparare la storia sul campo – della Primavera Araba in Egitto nel 2011 e la curandera che in Brasile invoca gli spiriti, cadendo in trance davanti alla telecamera; tra gli occhi sgranati di Paulo, il ragazzino che negli Anni Novanta in Angola accompagnava il fotografo ovunque, e l’espressione arrabbiata della stessa figlia dell’autore: sala dopo sala, è difficile riconoscere di primo acchito un filo conduttore di questa esposizione, che sia la scansione temporale o un tema unificante.
Parlando dell’abbinamento tra fotografie a colori e scatti in bianco e nero, appesi magari sulla stessa parete, Majoli risponde semplicemente che ha deciso “con il cuore”. E aggiunge, in uno sforzo per rendere intellegibili legami che pure si intuiscono: “Guardando le immagini, io non vedo colori; vedo il fumo bianco che si leva da una strada sterrata in Afghanistan [uno scatto del 2001 di una landa desolata, che porta appena le tracce dei convogli militari di passaggio, N.d.R.] e il velo bianco di un vedovo in Congo [sul sedile posteriori di un taxi, fotografato nel 2013, N.d.R.]”.
Le giustapposizioni sono compositive ma non soltanto, appaiano movimenti fisici come moti dell’anima, facendo pensare a un “montaggio delle attrazioni” alla Eisenstein che dà alla mostra il ritmo “andante” del titolo.
A proposito della propria curatela, Majoli spiega di essere stato inizialmente guidato da alcune memorie: “Per esempio, ho iniziato cercando delle fotografie vecchie di Ravenna che volevo portare in mostra. Da lì, ho trovato altri scatti. Diciamo che sono partito da 800 immagini stampate come provini a contatto, che selezionavo e associavo d’impatto, senza un criterio razionale. Ci sono state alcune immagini che ho scelto sin dall’inizio, come quella che mostra la scrivania rovesciata di Gheddafi [in seguito alla guerra civile in Libia, nel 2011, N.d.R.], altre sono state aggiunte e tolte. Ho fatto cambiamenti fino a due giorni fa.
È stata “un’impresa folle”, ammette, selezionare 250 immagini come mai aveva avuto occasione di fare prima. Di fatto, Majoli ha firmato una mostra “ritagliata su misura” degli spazi museali di Ravenna, imprimendole un andamento ascendente. Se quindi al piano zero abbiamo le stanze dell’inferno, della tragedia percepita attraverso il dolore – non ultima, della morte –, alle sale superiori i toni si stemperano, superando i canoni del reportage. Il secondo livello presenta allora una selezione di scatti “più leggeri”, che facilitano nello spettatore un’accettazione dell’immagine all’interno dell’ambito artistico. Il percorso si conclude con l’anteprima di un più ampio progetto, una serie decennale incentrata sull’Europa – sui suoi popoli, ma soprattutto sulla crisi identitaria come elemento che ormai più li accomuna –, dal 2016 finanziata dalla John Simon Guggenheim Foundation, di cui Majoli ha vinto la fellowship.

Alex Majoli, Scene# 0435, Republic of Congo, 2013 © Alex Majoli

Alex Majoli, Scene# 0435, Republic of Congo, 2013 © Alex Majoli

LA FOTOGRAFIA DELLA POST-VERITÀ

Quest’ambiziosa serie occupa, senza soluzione di continuità, una lunga parete dell’ultimo piano del Mar. Già dal display, con Scenes si avverte forte il cambio di passo rispetto a quanto visto nelle altre sale. Oltre all’impronta di Diane Dufour e David Campany – i curatori di questa sola sezione, che rispetto a Majoli hanno optato per fotografie più lontane dal dato di cronaca – è la stessa tecnica esecutiva a segnare l’originale posizione dell’autore rispetto ai soggetti. Ritratti come se vivessero le loro esistenze sotto la ribalta dei riflettori.
L’elemento di finzione – che Majoli ha sempre percepito come inevitabile in qualsiasi scatto, per il solo fatto di inquadrare un evento all’interno di una propria visione – si traduce qui in esplicita teatralità. Come in teatro, le fonti di luce artificiale introdotte sulla scena superano in intensità il sole, scurendo le zone illuminate naturalmente. Se nelle fotografie documentarie l’autore ha sempre evitato di calcare la mano, al contrario qui insiste sulla drammaticità della pura vita quotidiana. Pressata dalla storia, dalla crisi economica in Grecia come dai movimenti fascisti in Ungheria, l’umanità risponde “a tono”, mettendo in scena il riflesso di ciò che sente accaderle.
Ma quale verità va raccontandosi, in queste immagini? “Ti cito Pirandello: Così è (se vi pare). Fosse per me, con le fotografie sarebbe sempre così: tu cosa pensi, cosa vedi? È così? È così. Non esiste la verità. I fotografi che producono immagini pensando di creare la verità sono dei pazzi, loro stessi se la raccontano. Le fotografie sono una serie di menzogne, ma interessanti.

Caterina Porcellini

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #10

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Caterina Porcellini

Caterina Porcellini è nata a Taranto, si è formata al DAMS di Bologna e professionalmente a Milano. Già durante l'università sviluppa un interesse per l'influenza esercitata dalla tecnologia su pensiero e società, attraverso le tesi di Marshall McLuhan, Walter J.…

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