La grande fotografia di paesaggio. Intervista con Mario Cresci

A 34 anni da Viaggio in Italia, rendiamo omaggio alla straordinaria operazione editoriale e fotografica promossa da Luigi Ghirri ed Enzo Velati. E lo stiamo facendo con una serie di interviste con i protagonisti di quella vicenda – da Giovanni Chiaramonte a Guido Guidi, fino a Vincenzo Castella. E ora, Mario Cresci.

Nato a Chiavari, in provincia di Genova, nel 1942, Mario Cresci partecipa a Viaggio in Italia con alcune immagini a colori che hanno per soggetto Matera e la Basilicata, dove vive per molto tempo, a partire dagli Anni Settanta. Gli abbiamo innanzitutto chiesto del suo rapporto con Luigi Ghirri, che conosce a Milano nel 1972.

Nello stesso giorno, tu e Luigi Ghirri avete inaugurato una mostra in via Brera: Ghirri al Diaframma di Lanfranco Colombo e tu alla 291 di Daniela Palazzoli. Vi siete scambiati le visite in galleria e avete iniziato a frequentarvi. Ricordi la sua mostra?
Quando l’ho vista, ho pensato: “È bravo ma vuole fare l’americano”. Poi ho compreso la sua grandezza: l’eredità di Walker Evans nel suo lavoro, la sua intelligenza critica. Veniva spesso a Bari, sono stato io a creare le premesse affinché la mostra Viaggio in Italia venisse fatta proprio là. Ghirri era un uomo molto gradevole sul piano dei rapporti umani e andavo volentieri a trovarlo a Modena, dove aveva uno studio di grafica con Paola Borgonzoni, sua futura moglie. Discutevamo di tutto, fuorché di fotografia. Ne sapeva molto di musica americana: Joan Baez, Bob Dylan; e di cinema: Wim Wenders, che in Italia ancora nessuno conosceva, e amava Peter Handke. Culturalmente era un onnivoro.

Quando ti invitò a partecipare a Viaggio in Italia vivevi a Matera?
Sì, ci conoscevamo ormai da oltre dieci anni. Un giorno mi ha proposto di andare a Bari a un convegno di fotografia e in quell’occasione, dopo un mio intervento abbastanza duro, mi ha chiesto: “Perché odi la fotografia?”. Ho risposto che non odiavo la fotografia, ma che mi piaceva contaminarla con altri linguaggi: dopo oltre cent’anni dalla sua invenzione, pensavo avesse bisogno di respirare con una modalità diversa. Il pensiero è dentro l’immagine. A lui è piaciuto molto questo modo di pormi e, anche se lavoravamo in senso opposto, c’era in noi un comune desiderio di far entrare nel discorso fotografico altre discipline, altri saperi.

Come sei arrivato alla fotografia? Partiamo dalla tua formazione.
Dopo il Liceo Artistico Barabino a Genova ho lavorato per un paio d’anni in uno studio di ingegneria. Poi nel 1963 mi sono trasferito a Venezia per frequentare, con una borsa di studio del Rotary della mia città, il Corso Superiore di Industrial Design nato poco tempo prima. Non sapevo neanche cosa fosse il design e mi incuriosiva il pensiero di scoprire ciò che non sapevo. Lì ho incontrato la fotografia, nel corso di Italo Zannier.

Mario Cresci, Geometria naturalis, 2013

Mario Cresci, Geometria naturalis, 2013

Quindi hai iniziato a fotografare a Venezia?
A Venezia nasce la mia prima sperimentazione: la storia dei segni (Avvicinamento, Traslazione, Rotazione dalla serie Movimenti), le alterazioni del quadrato e del cerchio (la serie Geometria non euclidea del 1964), che si sviluppano nel pensiero del design, non della fotografia. Nel frattempo frequentavo i giovani del Gruppo Enne di Padova, Massironi e Chiggio, che erano sostenuti da Argan. Intanto nella città lagunare stava nascendo il gruppo di lavoro che sarebbe andato poi a Tricarico per lavorare al Quaderno del Piano (1967). Tutto merito del calabrese Aldo Musacchio, sociologo molto bravo, che già insegnava a Padova, e che poi è venuto a insegnare da noi, alla scuola di design. Il suo approccio intrecciava l’antropologia, l’urbanistica e la programmazione del territorio. Nel gruppo chiama anche due giovani architetti, Ferruccio Orioli e Raffaele Panella. A me viene affidata la parte fotografica. Era il 1967. Tutti, guadagnando pochissimo, dovevamo stare sul campo. Dovevamo interrogare, interagire costantemente con la popolazione, indagare il territorio. Era una bella idea, utopica.

Ruotava tutto intorno a Venezia?
No, nello stesso 1967 avevo lavorato come grafico con Gae Aulenti a Milano: un incontro determinante per la mia futura vita professionale. Mi disse: “Tu sarai anche un bravo grafico, ma come fotografo sei molto più interessante. Ti consiglio di seguire questa strada”, cosa che ho fatto. A Roma conoscevo e lavoravo costantemente con Fabio Sargentini. Documentavo, per la sua galleria L’Attico, le mostre di Pascali, Mattiacci, Kounellis. Lavoravo per la rivista Carta Bianca, finanziata da Fabio Sargentini, il condensato più spumeggiante e sperimentale della critica di quegli anni. Nel frattempo sono stato anche chiamato da Mara Coccia, che nel 1964 aveva fondato Arco d’Alibert. La gallerista stava organizzando la prima mostra dei poveristi a Roma e io fui chiamato, unico fotografo, a fare le foto mentre gli artisti allestivano. Così ho conosciuto Boetti, Pistoletto. Ho capito quanto fosse importante il rapporto con l’arte e gli artisti, invece che parlare sempre di fotografia. Spesso discutevo con Ghirri di questo aspetto. Nel corso degli anni sono rimasto suo amico proprio perché non era solo un fotografo, ma un intellettuale. Mi piaceva il suo modo di ragionare.

A Parigi invece cos’hai fatto?
Lavoravo per un’agenzia di pubblicità, Màfia. Guadagnavo bene, ma non era il lavoro che mi interessava. Così, quando mi hanno chiamato, per l’ennesima volta, da Tricarico, ho deciso di lasciare tutto e ritornare in Basilicata. Quindi, dopo le esperienze di Roma e Parigi, nel 1970 ho raggiunto il gruppo trasferendomi definitivamente al Sud.

Mario Cresci, Interni mossi, Tricarico, 1967

Mario Cresci, Interni mossi, Tricarico, 1967

Cos’è per te il Sud?
Il Sud è stato per me un’area di ricerca di grande interesse. Lì ho scoperto il mondo della cultura materiale, quello che aveva affascinato il mio conterraneo Claudio Costa, anche se in maniera diversa. Mi interessava capire il linguaggio, i comportamenti. Era una società matriarcale in cui la storia sociale, la tradizione era affidata alle donne che restavano. Ho iniziato a leggere De Martino, il suo Sud e magia, un apporto fondamentale per me. Ho letto tutti gli scritti del poeta e scrittore Rocco Scotellaro, che era di Tricarico. In tutto questo non ho mai perso di vista il mio punto di partenza, la geometria del progetto. Tutti i problemi legati al mondo dei materiali, del design, li ho tradotti in una sperimentazione fotografica continua e in una ricerca sulla comunicazione visiva che mi ha impegnato per gli anni successivi nella grafica di pubblica utilità.

La tua indagine è soprattutto di natura linguistica.
Sì, per me è determinante questo aspetto. Tornando al discorso del comportamento e del rapporto con le persone, credo sia molto importante, perché influisce poi sulle cose che si fanno. Il mio compito, mentre lavoravamo al piano di Tricarico, per un anno intero, fu quello di fotografare gli interni delle abitazioni, in supporto ai rilievi degli architetti. In quelle stesse case avrei realizzato in seguito la serie dei Ritratti reali (1972). Soprattutto era importante parlare con gli abitanti, per spiegare sì il mio lavoro, ma anche convincerli a parlarmi della loro storia e raccontarla a mia volta, in un avvicinamento visivo discreto. Così a Venezia e Milano ho imparato l’efficienza, il discorso delle tecnologie, il rapporto con l’industria, ma al Sud ho imparato il rapporto umano, senza cadere nella retorica del buonismo.

Hai sempre intervistato, interrogato le persone. Questo ha fortemente segnato anche la tua metodologia di lavoro.
Sì, mentre li fotografavo li intervistavo. Ancora oggi con i miei studenti mi piace parlare dei loro progetti, sapere che cosa pensano.

È anche il mondo che è stato di Giuseppe Di Vittorio, della Puglia, uno dei padri del sindacalismo italiano.
Non ho fatto solo fotografia, infatti, mi sono occupato anche di scuola. Il libro Misurazioni (1978), uscito dopo quello su Matera (Immagini e documenti, 1975), nasce proprio dalla ricerca fatta fianco a fianco con gli studenti. Mi sono inventato una scuola, dove ho insegnato per quattro anni, creata secondo la Legge 285, basata sul preavviamento al lavoro, che consentiva alle Regioni di costituire dei corsi speciali con l’intenzione di creare cooperative artigianali di alto livello, nel solco delle nuove regole sindacali.

Mario Cresci, Cenacola, Sicilia, 2013

Mario Cresci, Cenacola, Sicilia, 2013

Hai insegnato per molto tempo e ancora insegni. Che significato ha avuto per te l’insegnamento?
Il rapporto con i giovani è vivificante. Insegno a Modena e Urbino, faccio lezioni frontali, ho pochi studenti e riesco a lavorare sul singolo progetto di ognuno. Li faccio lavorare su temi o luoghi concreti. Per me l’insegnamento è fondamentale. È una linfa vitale, sia per la contaminazione con i lavori dei ragazzi, alcuni molto belli, sia per la discussione e soprattutto per la possibilità di affrontare tante tematiche e modalità espressive in continuo mutamento.

Un nuovo modo di approcciarsi alle stesse cose.
Un artista che insegna dovrebbe abbattere il proprio Super-Io. Abitando nel Sud vent’anni, facendo il “creativo” in quel contesto, ho perso economicamente, però mi sono arricchito di alcune cose che solo al Sud puoi avere, solo in quelle culture. In quei luoghi, in quegli anni mi hanno spiegato che uno sgabello fatto a mano ha solo tre gambe perché la quarta risulta inutile e si risparmia un pezzo di legno.

Quando hai iniziato a usare il colore, che hai utilizzato anche per i lavori di Viaggio in Italia?
Nelle foto scattate per il Touring Club per la collana di libri Attraverso l’Italia. Era il 1980.

In uno dei tuoi recenti lavori, Attraverso l’arte del 2010, hai ripreso delle persone che guardano quadri di spalle. Quella serie di fotografie mi ha sempre fatto pensare ad alcuni lavori di Luigi Ghirri. C’è una relazione?
L’idea di una figura che guarda verso lo spazio è un’icona che nasce assai prima della fotografia, nella storia dell’arte.

Vediamo le persone solo di spalle come in quel famoso quadro di Giandomenico Tiepolo, il Mondo Nuovo, che si trova a Ca’ Rezzonico, a Venezia.
Anche se le mie immagini sono un po’ diverse, se vuoi c’è un’affinità formale con le foto di Ghirri, ma non ci ho pensato. Il lavoro del quale parli è nato a Bologna con Luigi Ficacci, che mi ha proposto di fare una mostra d’arte contemporanea alla Pinacoteca Nazionale. Era il 2010 e la mostra si intitolava Forse Fotografia: Attraverso l’arte, per l’appunto. Durante il sopralluogo ho voluto conoscere le persone che lavoravano nella Pinacoteca, così mi hanno presentato i custodi delle sale. Ho pensato di fare un lavoro su di loro che guardano un dipinto, scelto tra i loro preferiti. Siccome non volevano essere fotografati, li ho ripresi di nuca mentre guardavano il quadro.

È diventato un lavoro concettuale.
Ho collocato nel salone d’ingresso tredici stampe incorniciate con cornici vere e l’effetto sulle persone è stato straordinario. Finalmente sentivano una sorta di appartenenza al loro luogo di lavoro. In ogni mia opera, quando è possibile, fuoriesce il desiderio, portante, di avere uno scambio con gli altri.

Mario Cresci, I rivolti, Charles Baudelaire, Bergamo, 2013

Mario Cresci, I rivolti, Charles Baudelaire, Bergamo, 2013

UN ARTISTA CONCETTUALE

Definire Mario Cresci un fotografo è riduttivo e sviante. La sua ricerca, che prende il via negli Anni Sessanta, è strettamente legata all’ambito artistico più che fotografico. Già negli anni degli studi al Corso Superiore di Industrial Design a Venezia dà vita a lavori in cui è presente il concetto di “verifica” che avrebbe teorizzato Ugo Mulas alcuni anni dopo.
Interventi di modificazione, sparizione, cancellazione e taglio appartengono al suo modo di operare sull’immagine. Probabilmente dovuto ai suoi studi è l’interesse per il rapporto con l’oggetto anche da un punto di vista tattile, fisico. Guarda con la convinzione che la percezione visiva sia solo una parte della sua sensorialità.
Nel 1967 inizia a realizzare a Tricarico Interni e Interni mossi, che riprende nel 1978 a Barbarano Romano. Nel 1972 realizza i Ritratti reali che mostra a Luciano Inga Pin, il quale gli propone di comporli in trittico, idea che Cresci accetta volentieri. Il titolare della Galleria Diagramma, infatti, era un uomo molto intelligente, dal quale imparare molte cose. A Cresci piace ricordare la sua Campo 10, una mostra d’arte concettuale alla quale partecipano anche Franco Vaccari, Cioni Carpi, Mimmo Paladino e parecchi altri. Inga Pin lo invita a partecipare con le immagini scattate sull’uccisione del maiale (Cronistorie, 1970). In quegli anni in galleria esponevano gli austriaci del Wiener Aktionismus. Vi era un certo interesse nei confronti dell’aspetto cruento dei fenomeni.
Da sempre l’interesse di Cresci si rivolge più agli artisti che ai fotografi, da Boetti a Paolini, sebbene guardi con interesse anche a Josef Koudelka, Robert Frank, Walker Evans. Indica tra i periodi più significativi per la sua ricerca quello del Sessantotto romano. In Esercitazioni militari un nastro lungo più di sette metri, composto da immagini in sequenza come fotogrammi di un film in 16mm, viene usato per una performance. Srotolato da una finestra, attaccato sui muri per strada o posato al suolo sotto i portici, tra la gente che, incuriosita, sosta a osservare. È un’occupazione del suolo pubblico in funzione di un’idea di protesta. Il tutto decisamente in anticipo sul moderno concetto di “arte pubblica”.
Il termine fotogramma è presente anche in altri suoi lavori, come Fotogrammi d’affezione (1967), nati a Tricarico: copie uniche che nascevano sotto l’ingranditore, spostando la carta fotografica e lasciando la pellicola. L’icona era ricavata da un negativo. Quindi Cresci opera graficamente riproducendo il tutto su più carte, su più superfici. Nel 1970 realizza anche il suo unico lungometraggio, Cronistorie, girato su pellicola da 16mm della durata di 40 minuti. È il tentativo di portare in film la fotografia. Teatro di posa è sempre Tricarico, per tante ragioni un’importante area di ricerca multipla per il suo lavoro. Nel 1979 da Trisorio, a Napoli, dà vita alla mostra Campo riflesso e trasparente, un progetto sperimentale, una riflessione importante sull’utilizzo del mezzo fotografico in ambito artistico.
C’è un suo racconto che chiarisce perfettamente il rapporto tra i diversi interessi all’interno della ricerca di Cresci: “Negli anni della Basilicata, in casa di una donna noto, sopra il camino, una trentina di foto-cartoline. Lei mi dice che quella è la sua Storia. Sono ritratti lei stessa, il marito e i figli. Inizia, quindi, a spiegarmi, in dialetto, che suo marito è in America e non si possono vedere più. Quindi, continua, ho pensato di fare questa cosa: ogni sei mesi mi faccio fotografare, vestita bene e con i figli; il fotografo lascia uno spazio libero accanto a me nella foto; poi invio la cartolina a mio marito che a sua volta si fa fotografare, come faccio io. Con le forbicine lui ritaglia e incolla la sua foto sulla mia; infine mi rimanda il tutto e io sono felice di avere la mia foto con lui. Sono rimasto sbalordito. Mi sono chiesto come una persona così semplice potesse avere una fantasia così straordinaria. Neanche un artista concettuale avrebbe potuto avere un’idea così geniale!».
Forse proprio scoperte come questa hanno determinato il percorso di Mario Cresci, in cui la ricerca artistica e quella fotografica sono reciprocamente determinanti, in cui è fondamentale relazionarsi assiduamente con l’arte contemporanea e i suoi protagonisti.

Angela Madesani

In collaborazione con Lara Morello

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #43

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Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

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