Dal suono alla forma. Intervista al sound artist Matteo Nasini
Dal “ritratto di un sogno” all’esplorazione delle stelle. Un tuffo nella pratica artistica di Matteo Nasini che tra arte, musica, scienza e tecnologia, si racconta ad Artribune riflettendo sul ruolo degli artisti in questa fase storica a dir poco preoccupante

Nell’ambito del terzo appuntamento di Visioni Diacroniche, Mondi in dialogo tra ecosistemi naturali e arte contemporanea; rassegna di incontri con artisti giunta alla terza edizione, organizzata dalla Fondazione Riccardo Catella con il progetto BAM, Biblioteca degli Alberi Milano e Volvo Studio Milano e curata da Francesca Colombo e Ilaria Bonacossa, da un’idea di Volvo Car Italia; Matteo Nasini (Roma, 1976) racconta la sua ricerca artistica, che esplora il suono traducendolo in forma. Una pratica che si articola in installazioni, performance, architetture, elementi scultorei e tessili. Per approfondire ne abbiamo parlato direttamente con lui.
Intervista con il sound artist Matteo Nasini
Da dove nasce l’idea di unire l’arte contemporanea con il suono?
Si chiama Sound Art, la disciplina in cui le arti visive lavorano con il suono. Nel mio caso sono interdipendenti. Spesso i progetti partono dal suono, ma per divenire hanno bisogno della materia, o viceversa. Ho un background da musicista classico, che per me è importante, anche per la metodologia, ma ho sempre portato avanti il mio interesse per le arti in generale e quando ho iniziato a fare delle sperimentazioni con i miei progetti ho avuto bisogno di costruire sistemi ed istallazioni per poter dare voce a questi suoni. Splendore neolitico è una ricerca sull’origine del suono, ho fatto delle scansioni 3d per ricostruire i primi strumenti della storia, fatti da ossa fossili di animali estinti e abbiamo provato a suonarli e vedere cosa usciva fuori, delle performance che ragionano sugli elementi fondanti del suono: il respiro, la voce e una dimensione divinatoria dell’esperienza acustica. Non intrattenimento, che avviene molti secoli dopo. All’inizio l’esperienza musicale era qualcosa di sacro, la porta per andare oltre l’esperienza terrena. E pensandoci in tutte le culture religiose, per parlare alla divinità, si canta. Il potere evocativo della musica, che può risvegliare qualcosa che è dentro di noi.
Musica e arte e il loro rapporto con scienza e tecnologia. Sono mondi diversi?
Per me no, è una cosa naturale. Quando hanno dipinto la Cappella Sistina si sono dovuti inventare dei ponteggi che non esistevano, hanno dovuto fare innovazione. Per me è importante lavorare nel contemporaneo, ho interesse ad occuparmi di stati di coscienza e sogno e nell’Ottocento avrei fatto un dipinto del tuo sogno, ma facendolo oggi abbiamo encefalogrammi e tracciati che ci possono aiutare.
Ci dica di più sui suoi progetti…
Dei progetti che esporrò stasera il primo si chiama Sparkling Matter, sugli stati di coscienza e soprattutto sul sogno. Ho iniziato a registrare i sogni delle persone e ho realizzato delle performance che duravano una notte, Sleeping Concerts, dove c’è una persona addormentata con un encefalogramma e si ha la trasformazione in tempo reale, dell’attività celebrale in suono. Questo grazie ai “dormienti professionisti” che sanno dormire in ogni luogo, perché io soffro di insonnia e bisogna avere la capacità di trasformare ciò che ci affligge in qualcosa di virtuoso. Al tempo stesso ho isolato le parti del sogno, della fase REM, e le ho inserite in una serie di software che generano delle forme, stampate in 3d con la porcellana. Di questo progetto mi interessavano due elementi: la dimensione partecipativa – il fatto che attraverso la performance i confini del sonno e del sogno, cose intime e private, vengono espansi. Le persone vengono e ascoltano e spesso si addormentano anche loro. Si condivide il sonno in uno spazio pubblico, che deforma la sua esistenza, viene indotto dall’artista e rimane aperto tutta la notte. I visitatori entrano a far parte di questa “architettura sensibile”.

Cosa ci può dire dei sogni?
Ho i tracciati ed è interessante che a volte corrispondo, sono esattamente identici.
Per persone diverse, che non si conoscono?
Sì. Chiedo sempre i sogni, se hanno sognato, se ricordano che cosa e a volte, a parità di attività celebrale, ci sono sogni completamente diversi. Uno al mare e uno in montagna, uno nello spazio e uno sottoterra. Noi di come funziona la mente dal punto di vista elettrochimico sappiamo tutto, la psicoanalisi ci ha detto tutto anche sull’interpretazione dei sogni. Ma gli scienziati non riescono a dirci perché sogniamo. È una funzione vitale, sognano i rettili e i mammiferi. Sappiamo perché abbiamo gli occhi, perché ci viene fame o sonno, ma non perché ci accade di fare quest’esperienza di uno stato di coscienza diverso”
Una pratica artistica sospesa tra suono, tecnologie e neuroscienze. Ci parli dell’opera “Welcome Wanderer”, per la quale avete progettato un software che traduce in composizione sonora il moto degli astri della Via Lattea.
Si basa sull’automazione del catalogo stellare Gaia DR2, prodotto dall’ESA, che al suo interno contiene la mappatura dell’un per cento delle stelle della nostra galassia, all’incirca 4,5 miliardi, all’interno della Via Lattea. Questo catalogo, in collaborazione con un fisico ed un programmatore, lo abbiamo trasformato da anni luce in gradi e in questo modo possiamo metterlo in un punto esatto del nostro pianeta, un punto di osservazione. Quando una stella passa sopra la nostra testa il software la riconosce ed invia una serie di segnali che riguardano distanza, grandezza e calore e questi vengono trasformati in suoni. Il computer invia i segnali ad un software audio con centinaia di campioni vocali registrati e ogni numero della distanza e del calore corrisponde ad un suono, per cui a seconda del numero che arriva, numeri molto grandi, attiva dei suoni e si crea una composizione. Io non so come suonerà.
Cosa l’affascina delle stelle? In una città illuminata artificialmente, come Milano, è difficile vederle.
Le stelle sono state la guida per millenni, i nostri antenati le conoscevano a menadito. Oggi è diverso. Il progetto vuole umanizzarle. I nostri antenati vedevano poche stelle, rispetto a quante ne cataloghiamo noi oggi. Nel passato si davano loro nomi bellissimi, come le costellazioni, mentre adesso sono dei codici alfa numerici lunghissimi, che sembrano Iban. Il catalogo è un file Excel pieno di numeri, non dice più nulla.Cantando, con il software, torniamo come a richiamarle. Il progetto vuole cercare di creare un ponte verso questo emisfero enorme, quasi incomprensibile. Quattro miliardi e mezzo è un numero astratto, con cui perdiamo il contatto. L’esperienza è effimera, la stella suona e se ne va. Una delle difficoltà maggiori a livello tecnico è proprio il fatto che tutto si muove. Per i programmatori, quando crei un ambiente 3d, alcune cose le devi ancorare, ma qui si muove tutto.

Qual è secondo lei il ruolo dell’artista in questo momento storico così complesso?
Non ho un’idea precisa di cos’è l’artista oggi e di cosa sia l’arte. Non so neanche se l’arte debba avere una funzione, un ruolo. Quello che posso dire è che molti artisti cercano di trovare e tracciare una strada diversa, forse alternativa, che non si nutra più di tutta una serie di dinamiche oggi al centro della geopolitica globale, per dei rapporti di forza fondamentalmente economici. Forse quello che può fare l’arte, oltre a farci astrarre e ad evocare qualcosa di diverso in noi, è di essere un terreno sperimentale in cui esplorare dinamiche diverse. In questi due progetti, del sogno e delle stelle, dal punto di vista della performance è il dormiente ad essere il performer e compositore, non sono io. Io ho costruito un’architettura, ma l’artista sei tu. Un discorso sull’autorialità: nel progetto con le stelle ho deciso le voci, ma le suona lui. Una pratica autoriale che un po’ si smembra, ma si allaccia a come viviamo noi, molto interconnessi, che ci affidiamo e deleghiamo alla tecnologia e non facciamo più tutto noi. In qualche modo per me non è arte e scienza, arte e musica, ma è arte contemporanea, io la vedo così.
Giulia Bianco
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